EDITORIALE – 22 agosto 1983. I Depeche Mode sono in piena transizione tra il pop ed una direzione più sofisticata, diretta verso l’elettronica che andrà definitivamente a caratterizzare il timbro del gruppo.
Construction Time Again, terzo album della band britannica, é il prino disco del gruppo con Alan Wilder in formazione, che rimarrà fino a Songs of Faith and Devotion del 1993. Rispetto alle precedenti pubblicazioni, in Construction Time Again emergono testi più ricercati e oscuri, scritti in gran parte da Martin Gore a seguito di una sua visita a una Berlino all’epoca ancora divisa dal Muro; anche la sezione musicale ha subito un cambiamento, attingendo dallo stile krautrock e industrial di vari gruppi tedeschi del periodo.
Il disco rappresenta inoltre, secondo la critica specializzata il primo capitolo della cosiddetta «trilogia berlinese» dei Depeche Mode, in quanto questi, al pari dei seguenti Some Great Reward e Black Celebration, si recarono nella capitale tedesca per la loro realizzazione (sebbene nello specifico Construction Time Again fu registrato presso i Garden di Londra e missato agli Hansa Ton di Berlino).
Come già detto, l disco arriva sicuramente in un momento chiave, e lo si capisce dalla Love In Itself d’apertura che, pur essendo un singolo, presenta un suono più fisico, una costruzione sonora più complessa, un’atmosfera più scura di quanto la band abbia mai fatto in precedenza. Il pop viene distorto e complicato da torbidi (mal)umori post-punk, soprattutto nei brani più lenti e d’atmosfera.
Tra questi, Pipeline, una sorta di work song futuristica cantata da Martin Gore sopra a un lento e marziale accompagnamento ritmico, e una The Landscape Is Changing destinata ad aprirsi in una coda evocativamente dark.
Everything Counts, il pezzo forte, è invece un capolavoro pop: un saggio sociologico sugli anni Ottanta sostenuto da un basso sintetico dal tiro inarrestabile e da un corredo di suoni stranianti di cornamuse, flauti e percussioni varie. Dave Gahan è ormai un mattatore ed il brano si trasformerà dal vivo in un delirio collettivo: indimenticabile la scena del video 101 (del 1987) con la folla immensa del Rose Bowl di Pasadena che agita all’unisono le braccia, guidata dal cantante, intonando il coro più cinico della storia: “The grabbing hands grab all they can/ everything counts in large amounts…”.
Il disco risulta attualissimo nei contenuti, se si pensa a ciò che succede oggi in una Cina votata ai modelli economici occidentali con operai pagati pochissimo (praticamente senza diritti), l’emergenza umanitaria afgana e la questione ambientale.
Il sound è eccellente, i suoni di sintesi sempre appropriati, la voce di Dave stupenda.
Un album da ripescare (non foss’altro per questioni ideologiche) ma che rivela al suo interno brani assai pregevoli. Il disco più Industrial dei Depeche Mode.