#TellMeRock, 22 Novembre 1994: I trent’anni di Vitalogy, l’album con cui i Pearl Jam salvarono se stessi

EDITORIALE – È il novembre 1994, e una scritta sulla confezione del singolo “Spin the black circle” annuncia l’arrivo del terzo album dei Pearl Jam intitolato “Life”. La vita è quella traballante di Eddie Vedder. È un periodo tormentato, che mette in pericolo l’esistenza stessa dei Pearl Jam, fra i problemi con droga e alcol del chitarrista Mike McCready e il dissidio con il batterista Dave Abbruzzese.

Vedder prova sensi di colpa per il successo ottenuto, odia il mondo in cui è stato improvvisamente proiettato, sabota consciamente la popolarità del gruppo spingendolo verso sonorità più dure e bizzarre. Si rifiuta di girare video e di concedere interviste.

Vitalogy è anzitutto il suo album, quello in cui espone la sua fragilità, in cui offre una radiografia dei suoi tormenti. Quando trova in un mercatino dell’usato un vecchio libro di pseudomedicina chiamato appunto Vitalogy, un manuale di consigli per vivere sani pieno di false credenze e moralismi, Vedder lo sceglie come titolo dell’album e ne riproduce alcuni passaggi e illustrazioni nel libretto del 33 giri e del CD abbinandoli a foto personali, un’immagine della moglie da bambina, una radiografia.

Vitalogy, pubblicato il 22 novembre 1994 per la prima volta in vinile, canta la malattia e canta la morte. E forse in modo meno esplicito, canta anche lo slancio verso la vita che salverà Vedder e la band. Comincia col suono secco di batteria di una canzone chiamata “Last exit” e finisce idealmente con “Immortality” (cui segue in realtà la jam “Hey Foxymophandlemama, that’s me”).

Otto mesi prima della pubblicazione dell’album, Kurt Cobain si è ucciso nella dependance della sua villa su Lake Washington, a Seattle. Facile intravedere in certi passaggi di “Immortality” riferimenti indiretti al dramma, specie nella parte sulla “scatola di sigari sul pavimento”, come quella contenente siringhe per iniettarsi eroina ritrovata a fianco del corpo di Cobain. Accompagnato da una sorta di shuffle bianco e funebre, Vedder canta cosa si prova a sentirsi “privilegiati come puttane” e “vittime a cui si chiede di dare pubblico spettacolo”. È uno dei momenti dell’album in cui non si è travolti dal suono del gruppo, ma si resta col fiato sospeso.

Fra “Last exit” e “Immortality” ci sono altri undici pezzi, alcuni dei quali cercano di raccontare che cosa significa condurre la vita oscena di prostitute rock, senza averlo chiesto. In “Not for you”, che sarà pubblicata su singolo, Vedder urla rabbiosamente che il suo tavolo è troppo piccolo per ospitare discografici avidi e media ingombranti e che tutto ciò che è sacro viene dalla gioventù. “Pry, to” è un breve frammento vagamente funk in cui il cantante fa lo spelling della parola privacy. “Corduroy” diverrà un classico dal vivo, il racconto vibrante d’emozione di un uomo che si sente defraudato della propria identità e della vita privata, un uomo che grida che “preferirei morire di fame piuttosto che mangiare il vostro pane”.

La band e il produttore Brendan O’Brien si divertono a inserire fra le canzoni frammenti come “Bugs” o “Aye Davanita”, che sembrano fatti apposta per spiazzare gli ascoltatori casuali e che creando un forte contrasto con belle melodie come quelle di “Nothingman” e “Better man”, quest’ultima proveniente dal repertorio del vecchio gruppo di Eddie Vedder, i Bad Radio. “Nothingman” è stata scritta in un’ora e per questo mi piace ascoltarla, perché ha catturato uno stato d’animo che c’era in quel momento, almeno per quanto riguarda la mia parte vocale” dichiara Vedder in un’intervista di quel periodo per il Los Angeles Times. “L’ho scritta prima di sposarmi (con la prima moglie Beth Liebling). Può essere che abbia messo qualcosa che so sulle relazioni ma è stata scritta pensando a qualcun altro che sta attraversando quella fase, qualcuno che ha mandato tutto a puttane. Io non ce le ho mandate. L’idea alla base è che se ami qualcuno e quel qualcuno ti ama, non devi mandarle a puttane, perché ti ritrovi a essere meno di niente. Le relazioni possono essere difficili. Ci sono delle volte in cui… la musica mi prende un sacco di tempo, spesso non dormo la notte; penso di essere una persona difficile con cui avere a che fare. Le cose sembrano non adeguarsi mai alla normalità e Beth si trova a dover affrontare tante cose. Non voglio entrare nel nostro privato ma a volte c’è della tensione. Immagino che a volte siamo tutti un po’ egoisti ma so per certo che senza di lei, io sarei un aquilone senza corda: un uomo da niente“.

Corduroy è l’ottava traccia di Vitalogy. Nonostante non fosse stata pubblicata come singolo, la canzone raggiunse il tredicesimo posto della Billboard Modern Rock Tracks chart.

Il pezzo comincia con un potente riff suonato come un arpeggio di cui le prime due note sono di un power chord. La canzone decolla, procedendo con una struttura strofa-ritornello-strofa-ritornello-ponte-ritornello-strofa. Sebbene non rivoluzionaria, la struttura della canzone non è completamente normale, infatti quasi nessun verso è ripetuto (anche nel ritornello) e la dissolvenza della canzone comincia dopo una strofa, piuttosto che una tradizionale fine della canzone dopo il terzo ritornello.

La canzone è divenuta una delle più eseguite dal vivo, sebbene viene proposta con un ritmo più veloce. Alcune performance sono precedute da una breve improvvisazione sulla canzone dei Pink Floyd “Interstellar Overdrive”.

Better Man (qualche volta scritta come Betterman) è una canzone scritta da Eddie Vedder quando era ancora al liceo, eseguita dal vivo dalla sua prima band, i Bad Radio. Considerata “apertamente una grande canzone pop” dal produttore Brendan O’Brien, i Pearl Jam erano riluttanti nel registrarla e rifiutarono di inserirla in Vs. a causa della sua accessibilità. Better Man appare così sull’album Vitalogy.

Mai pubblicata come singolo (una pratica della band per incoraggiare le vendite dei CD), divenne comunque una delle canzoni dei Pearl Jam più suonate e mandate in onda per le radio. Sebbene ci siano molte idee differenti riguardo all’origine della canzone, variando da un possibile relazione abusiva nella quale un uomo è coinvolto oppure ad una donna, spesso si è pensato che la canzone fosse dedicata al suo patrigno. Prima di suonare la canzone durante lo show di Atlanta, Georgia il 3 aprile 1994, Vedder disse chiaramente: “È dedicata al bastardo che sposò mia madre”.

Quando esce “Vitalogy”, vale a dire trent’anni fa, i Pearl Jam sono il gruppo rock più popolare del pianeta. L’album vende come oggi vendono i dischi di Taylor Swift o di Adele: 877.000 copie in una settimana e solo negli Stati Uniti. Alla fine le copie smerciate saranno in numero minore rispetto ai due dischi precedenti: “Vitalogy” è troppo strano e incattivito, nasconde ballate e canzoni melodiche in mezzo a collage sonori respingenti e riff ulceranti.

Resta una splendida anomalia nella storia dei Pearl Jam, il loro album più viscerale e pieno di tumulti emotivi, con suoni e testi bilanciati fra asprezza e poesia. Riascoltarlo a oltre vent’anni di distanza dalla pubblicazione significa venire catapultati in un mondo che non esiste più, significa riconnettersi a un periodo della storia del rock in cui si prendeva la musica maledettamente sul serio. Come una questione di vita e di morte.