EDITORIALE – Chissà cosa avrebbe pensato la gente, se li avesse visti seduti insieme a quel tavolino, discretamente protetti da due guardie del corpo.
Bob Dylan e Leonard Cohen, le due coscienze pure della canzone d’autore, i due ebrei erranti, i due navigatori delle sacre scritture, che poi trasformavano in canzoni. Dylan e Cohen, seduti al tavolino di un bar a Parigi, dove il primo aveva suonato la sera prima, mentre il secondo era lì a mostrargli i testi di una chilometrica ballata che ancora una volta prende spunto dalla Bibbia – da Davide a Betsabea, con riferimenti a Dalila e Sansone – per diventare un inno all’amore e al sesso.
L’Hallelujah può essere tutto, pensa Cohen…e non ha neppure bisogno di dirlo a Bob Dylan perchè già lo sa. L‘Hallelujah è un ringraziamento e vale sia se è religioso, sia se è profano, ed ecco perchè nelle strofe il brano ga riferimento anche a un broken Hallelujah.
Dylan è abituato alle canzoni lunghe, eppure sgrana gli occhi: “quante strofe sono?” chiede.
“Un’ottantina“, rispose Cohen… “però…”, sussurrò Bob.
Insieme leggono e commentano, ma alla fine Cohen non riuscirà a eliminarne neppure una. Gli costerà una fatica immane scegliere, quando nel 1984, inciderà il brano nel suo disco Various Positions, e continuerà a considerare la sua Hallelujah un gigantesco poema, tanto che, nel 1991, John Cale deciderà di farne una cover. Cohen gli inviò 15 pagine di fax, con le ottanta strofe e i relativi commenti. Cale poi sceglierà a caso quali incidere.
Nella versione originale, Hallelujah ebbe un successo di culto, ma il brano divenne immortale nell’interpretazione di Jeff Buckley, che lo visse e lesse come un inno all’orgasmo.
Il brano è inserito nell’album Grace, pubblicato il 23 agosto del 1994: il vero e proprio esordio di Jeff Buckley, figlio di Tim Buckley, col quale condivide un’estensione vocale incredibile e (ahimé) una fine prematura. Dieci canzoni in tutto: tre cover (la suddetta Hallelujah di Leonard Cohen, Lilac Wine di Jerry Shelton già interpretata precedentemente da Nina Simone e per finire Corpus Christi Carol, di Benjamin Britten) e sette brani scritti da Buckley a volte con il compagno degli esordi, Gary Lucas, a volte con altri membri della sua straordinaria band.
Tra i brani scritti da Buckley c’è Last Goodbye, che forse si può considerare il più grande successo commerciale del cantautore americano. In origine si intitolava Unforgiven, come ha puntualizzato la madre di Jeff sul sito ufficiale. Ha fatto anche parte della colonna sonora di Vanilla Sky, film con Tom Cruise e Cameron Diaz.
Anche se molti hanno voluto leggerci dentro funesti presagi della morte di Jeff Buckley, è solo (ma questo solo va messo tra almeno un centinaio di virgolette), la storia di come un rapporto finisce nella forma, ma non nella sostanza. Se Juliette Greco diceva che i grandi amori finiscono sempre male, Jeff Buckley era convinto che i grandi amori non finiscono mai: rimangono dentro, anche se poi fuori le strade si dividono.
Pochi artisti hanno lasciato un segnale così forte con un disco solo. Jeff Buckley, come scrive saggiamente il compianto Massimo Cotto, “è morto così come ha vissuto, in un lampo”. Il 29 maggio 1997 la sua band arriva in aereo a Memphis per lavorare al secondo disco. Nel pomeriggio Jeff va a nuotare nel Wolf River Harbor, un affluente del Mississippi. Entra in acqua cantando il ritornello di Whola Lotta Love dei Led Zeppelin. A riva c’è un membro della sua band, Keith Foti, che lo guarda mentre fa il bagno. Si distrae solo un attimo, per spostare la radio e la chitarra.
Quando guarda nuovamente nella direzione di Jeff, lui è sparito. Ritroveranno il suo corpo solo il 4 giugno. L’autopsia stabilisce che la morte è accidentale e che nel suo corpo non è stata rilevata alcuna sostanza tossica. Jeff Buckley è annegato e, con lui, anche un pò del grande rock degli anni ’90.
Grace è un disco vicinissimo a quella che noi definiamo “Arte”. Pochi secondi e Jeff ti entra dentro: “Mojo Pin” alterna sussurri, grida disperate ma mai violente, arpeggi delicati e rullate di batteria possenti. Tutto un alternarsi di sentimenti, sorretti da un testo meraviglioso che riesce a parlare d’amore senza nemmeno sfiorare la banalità. E Mojo Pin cede il testimone alla title-track: anche qui Jeff riesce a passare da un registro all’altro con una capacità incredibile, fino a quell’urlo finale che regala brividi lungo la pelle. E anche in questo caso bisogna sottolineare l’importanza delle parole, che non possono non far riflettere: “Non ho paura di andarmene, ma le cose avvengono così lentamente…”, le ultime parole dell’ultima strofa, sembrano profetizzare quello che poi accadrà effettivamente.
Jeff ci presenta in una versione davvero minimalista Lilac Wine, facendo suo sia un testo malinconico in linea con uno “stile Buckley” sia una melodia che esalta le qualità di interprete di Buckley, che stavolta abbandona gli acuti per cantare in maniera più dolce, anche perché è la canzone che lo richiede. So Real è certamente un brano rock “immediato”, ma non per questo ha qualcosa in meno degli altri.
A questo punto del disco Jeff propone la terza cover, Corpus Christi Carol, ed Eternal Life, due brani agli antipodi, il primo è un canto religioso, il secondo è invece sorretto da chitarroni quasi noise. Due perle che non fanno altro che lasciare spalancata la bocca dell’ascoltatore e confermano la duttilità musicale di Jeff Buckley, sia come chitarrista e compositore, sia come interprete.
Il disco si conclude con Dream Brother, il primo brano scritto da Jeff insieme a tutta la sua “ciurma”. Il testo è ancora una volta pura poesia, e la musica passa dall’arpeggio iniziale, quasi orientaleggiante, a un intermezzo strumentale di notevole interesse. Una chiusura perfetta per un cerchio perfetto.
Grace è un disco unico, a trent’anni di distanza é ancora una vera e propria “esperienza”. E’ uno dei dischi che uno porterebbe sulla famosa isola deserta. Ma è soprattutto, purtroppo, un inconsapevole e magnifico testamento artistico, oltre che spirituale, di un artista che (come dimostreranno le iniziative postume), aveva ancora molto da dire.