EDITORIALE – Nel New Jersey, terra fertile di talenti per il rock americano della decade ottantiana, messa in piedi già negli anni settanta da un certo Bruce Springsteen, si formarono numerose band pronte a calcare da protagoniste la scena dell’hair/pop metal tanto in voga in quel periodo, e tra queste non si possono non citare i primi Bon Jovi. Proprio dopo la sua uscita da questo gruppo di gran successo, il chitarrista Dave Sabo dà inizio, insieme al bassista Rachel Bolan, ad un altrettanto ambizioso progetto, fondando nel 1986 gli Skid Row, fin da subito pronti ad accogliere altri giovani talenti, tant’è che entrarono a far parte del gruppo il batterista Rob Affuso, il chitarrista Scott Hill e soprattutto il cantante Sebastian Bach.
Gli Skid Row esordiscono nel 1989, più precisamente il 24 gennaio con un album omonimo contenente una completa rassegna di tutto ciò che la loro proposta musicale era in grado di offrire, divenendo ben presto padroni del mercato discografico statunitense ma anche internazionale, visto che questo loro primo lavoro riuscì a vendere moltissime copie ovunque, consegnando agli Skid Row un successo immediato e forse inaspettato, anche e soprattutto tra gli adolescenti per i quali il cantante Bach divenne ben presto un idolo.
I brani contenuti nell’album, portati al mio orecchio personale a metà degli anni ’90 dal mio mentore musicale Antonio Albanese, sono tutti meritevoli di attenzione, anche se è normale che alcuni di essi spiccano maggiormente, tanto da essere divenuti dei veri e propri hit, classici di un genere musicale oggi purtroppo in profonda crisi.
Innanzitutto le due ballad 18 And Life e I Remember You: la prima -incentrata sulle sventure del giovane ribelle Ricky– pur essendo una ballad, presenta un ritmo sostenuto e adrenalinico, una bellissima melodia e mette in mostra sia la superba ed efficace estensione vocale di Bach sia la meravigliosa prova delle chitarre. Narra di un fatto di cronaca nera accaduto realmente: un giovane ragazzo, che nel brano come già detto è chiamato Ricky, uccide un suo amico involontariamente con una pistola e si ritrova a scontare l’ergastolo. È la prima power ballad composta da Rachel Bolan, divisa tra arpeggi lenti in pulito e riff distorti, nelle strofe come nei refrain. È inoltre presente un degli assoli più famosi di Dave Sabo, insieme a quello di “I Remember You”. La prima, mesta strofa inizia dunque a narrarci la triste storia di Ricky. Una sei corde incredibilmente cupa, quasi triste e densa di pathos, ben diversa dai chitarroni impertinenti uditi nei precedenti pezzi. Tuttavia, l’aggressività del combo ritorna, esplodendo poco dopo l’inizio. Anche Bach preme sull’acceleratore, mostrando una performance sofferta ed incredibilmente sentita. Il protagonista è un ragazzo di strada, cresciuto in periferia, senza prospettive per il futuro. Un diploma scolastico ottenuto sul filo del rasoio, tuttavia inutile. Ricky non ha il becco di un quattrino, e passa le sue giornate bighellonando per le strade, alla ricerca del brivido, dell’avventura. Una ricerca che pagherà caro, cadendo nelle spire della delinquenza. Le quali, come un serpente farebbe con la sua preda, lo stritoleranno sempre più sino a farlo soffocare.. e capitolare, sconfitto ed umiliato dalla vita. Il ritornello non fa altro che acuire la sensazione di desolazione che abbiamo udito sino ad ora. Sabo ed Hill giocano fra clean e distorsione, mentre la ritmica si mantiene ben salda. Un refrain che ci catapulta all’interno di una cella, ove il giovane protagonista passerà il resto delle sue giornate, meditando sul senso della sua intera esistenza. La strofa successiva non tarda ad arrivare, mostrandoci la band ben più aggressiva e sul pezzo, nonostante non si corra veloci ed il clima rimanga madido di pianto. Ricky, lo spericolato. Il selvaggio, colui che giocava con alcool ed armi. E che, per gioco, ammazzò un suo amico, sconvolto dall’ebbrezza. Un cuore che pompava più tequila che sangue, organo principale di un corpo che non rispondeva più alla ragione. Nuovo refrain e nuova, amara consapevolezza: diciotto anni.. e carcere a vita. Quattro mura grigie e tristi come casa, sbarre alle finestre. Il pathos raggiunge il suo culmine subito dopo il secondo ritornello, dopo una parte cantata, culminante in un assolo incredibile. Come detto poc’anzi, memorabile, fra i più famosi del combo del New Jersey. Denso di passione, potente, graffiante.. in linea con i sentimenti di un giovane ragazzo rinchiuso suo malgrado in un penitenziario. Un giovane che avrebbe dovuto lottare per una vita migliore.. e che invece si è arreso. Ultimo ritornello; diciotto anni, e carcere a vita.
I Remember You è più lenta e più vicina ai canoni propri della ballad con un ritornello orecchiabile ed assoli grandiosi. Un Bach ora delicato ora potente e squillante, una coppia d’asce in bilico fra la melodia ed un’espressione di drammatica potenza, una sezione ritmica ben addomesticata e mai invasiva. Il brano è un trionfo di sentimento e pathos, dal sapore più catchy e radiofonico che mai, ma in grado comunque di sciogliere anche il più gelido dei cuori. Strofe che si dividono fra la potenza delle elettriche, rilasciata a dosi controllate, e melodie acustiche, ritornello costruito sul dramma d’amore del protagonista, espressivo quant’altri mai. Il testo non a caso tratta di sentimenti ancora vivi, nonostante la fine di una storia, esprimendo disperazione. Un ragazzo, ancora una volta ben diverso dai personaggi strafottenti narrati in altri brani, che passeggia sulla spiaggia ricordandosi della sua ex fidanzata. Sparita, andata via per sempre, dopo la rottura. Eppure, lui non riesce a capacitarsene. Passeggia sconsolato, in un giorno grigio ed uggioso, osservando le onde e la sabbia. Quella stessa sabbia sulla quale, in compagnia della sua bella, incise un “ti amo” ormai portato via dalla marea. Ricorda tutti i bei momenti trascorsi, la felicità, la gioia. Situazioni che paiono perse totalmente nel tempo, destinate a rimanere confinate entro mura ormai invalicabili. Una cosa, è tristemente certa: il fatto che lui l’amava davvero. Lei, l’incarnazione dell’amore in persona. Ora lontana, irraggiungibile, fra le braccia di chissà chi, e chissà dove. Disperazione totale sfogata in ritmi dolci e passionali, per nulla stucchevoli ma anzi decisi, incisivi. La composizione strumentale del brano è diviso tra strofe in acustico e ritornello in distorto seguendo un ritmo semplice ma di velocità moderata, la voce in questo caso è pulita anche nel ritornello nonostante Sebastian Bach esegua degli acuti come è solito a fare sia nelle ballad che nei brani più heavy. Mirabile il climax che porta Sabo a disegnare uno splendido assolo, dopo una “salita” sfociante appunto in note morbide e delicate, eppure capaci di mordere, di farsi udire, di ritagliarsi uno spazio importante all’interno dell’economia del brano e nelle nostre orecchie. Davvero una grande esecuzione, per una successiva ripresa della strofa in acustico ed il conseguente ritorno delle elettriche. Il ritornello, diretto e potente, viene dunque ripetuto fino all’acuirsi di un ulteriore climax, il quale porterà Bach ed il gruppo (sul finale) ad esplodere letteralmente, ad urlare al cielo, a far ruggire ugola e strumenti. Come solo un innamorato potrebbe fare. Ginocchia a terra, sguardo proteso verso il cielo.. “io.. mi ricordo ancora di te!!”, come se la musica avesse espresso la frustrazione ed il dolore provati da una persona che suo malgrado si ritrova a vivere senza la sua metà. Un impeto incredibile, che ci riconduce ad un nuovo mini assolo; confluendo poi in delicatissimi arpeggi acustici, mitigando così tanta tristezza. Davvero un brano eccezionale, fra i migliori di tutta l’intera tracklist.
Altro classico di quest’album deve necessariamente considerarsi anche Youth Gone Wild che presenta un riff semplice e diretto, un bel ritornello cantato a coro, ed ancora una grande prova di chitarre, basso e batteria. Un brano che parla di ragazzacci, di gioventù bruciata, con un piglio decisamente irriverente. Le parole del testo descrivono infatti in modo chiaro la vita di un bad boy che a sua volta scopre di non essere l’unico a sfuggire delle regole, a non riuscire ad avere il controllo dei propri impulsi, ma soprattutto a passare la propria vita sotto processo. Un’intera generazione di ragazzi strappati alle regole ed alla società civile, un po’ come accaduto a Ricky. Solo che, a differenza di “18 and Life”, in questo brano manca totalmente la voglia di auto commiserarsi o di farci commuovere a suon di storie tristi. I bad boys esercitano infatti un fascino atavico, con la loro vita perennemente vissuta sul filo del rasoio. Sempre nei guai, sempre in fuga.. perché loro sono così, e non cambieranno mai. Sono la generazione disillusa dalle regole, rigettata per questo da una società cieca, sorda e muta. Ostracizzati e ghettizzati, i Nostri non possono fare altro che crogiolarsi nella loro condizione di outlaws e per questo di obbedire ad un’unica ed importante legge: quella della strada. Celebre è l’intro composta da due violenti colpi di rullante, contemporaneamente alla chitarra, la quale segue con un riff melodico ma robusto come il resto degli strumenti del brano, mentre la voce tagliente di Sebastian Bach si manifesta in una delle sue migliori performance. Un brano incredibilmente ben concepito e strutturato, duro ed accattivante. Ottimo lavoro di basso nelle strofe, con una ritmica sul pezzo ed il leone Sebastian che ora ruggisce ora ci assale; anche se, il meglio del meglio, lo troviamo nel refrain. Un ritornello a dir poco MEMORABILE, che innalza il brano verso dei livelli di qualità inimmaginabili. Si canta, si scuote la testa, si alzano le corna al cielo: siamo la gioventù bruciata, la cosiddetta “generazione X”, privi di regole, selvaggi. E’ questo, quel che vogliono da noi? Ebbene.. siamo pronti ad accontentarli! Cantando in coorte con gli Skid Row, abbandonandoci allo splendido seppur breve assolo posto poco prima della conclusione del pezzo; subito dopo di esso, il ritornello viene intonato quasi a cappella, con una grancassa dal battere granitico. Momento a dir poco emozionante, che presto ritrova l’esplosione di tutto il comparto strumentale. Vocalizzi anthemici posti sul finale, con il solo titolo del brano che viene pronunciato da tutta la band. Siamo la gioventù bruciata, e non abbiamo paura di ammetterlo. Siamo i ragazzacci, gli outsider, gli underdogs. Nessuno scommetterebbe un centesimo su di noi, e ne andiamo fieri. La gente ci teme, ci schiva, ci ghettizza, e a noi sta benissimo così. Siamo fieri di non appartenere a questo mondo, e lo saremo per sempre!
Basterebbero queste tre canzoni a giustificare l’acquisto del disco, ma se poi anche le altre non sono da meno, si può solo essere ancor più soddisfatti. Infatti Big Guns, Sweet Little Sister e Here I Am sono un buon esempio di street rock, veloce e grezzo, così come Piece Of Me, Makin’ A Mess e Rattlesnake Shake, sempre però orecchiabili e godibili già dopo pochi ascolti.
Piacevole anche Can’t Stand Heartache, più lenta ma sempre su ritmi sostenuti, mentre è sicuramente più heavy, quasi “maideniana“, la track conclusiva Midnight/Tornado. A voler trovare un difetto all’album lo si può riscontrare nella scarsa eterogeneità dei pezzi, alcuni dei quali fin troppo simili.
Un vero peccato che questa band si sia persa troppo presto, e soprattutto che abbia perso Bach dopo appena tre album, di cui questo ed il secondo Slave To The Grind di più che pregevole fattura. Infatti il biondo cantante non ha avuto molto successo nei suoi album da solista, mentre la band ha pagato a caro prezzo la perdita del suo leader, ritornando nel 2003 con Thickskin, album discreto ma dalle tendenze quasi pop riconducibile a band come The Calling (per capirci).