EDITORIALE – Nel cuore del 1999, mentre il secolo stava per finire e il millennio bussava con promesse musicali sempre più all’insegna del “digitale”, Surrender dei Chemical Brothers si apriva come un portale: un invito non a combattere, ma a cedere, lasciarsi trasportare, a ballare con l’anima. Pubblicato il 24 giugno di ventisei anni fa, il viaggio comincia con Music: Response, un battito sintetico che pulsa come un messaggio alieno, freddo e irresistibile, dove la macchina si fa ritmo e il cervello vibra. È l’elettronica che si risveglia con l’animo dei Kraftwerk con Missy Elliot che mette la firma sulla robotica.
Under the Influence è un vortice: sembra di cadere in una spirale lisergica, dove gli echi si rincorrono, l’acido si dissolve nel sudore, e i pensieri si sciolgono nell’onda sonora.
Poi Out of Control esplode come una ribellione lucida: la voce stanca ma eterna di Bernard Sumner (Joy Division, New Order) danza su un groove ipnotico, una marcia urbana nel cuore della notte, dove l’amore si confonde con la vertigine, e tutto sembra fuori portata, ma stranamente perfetto. Suggestivo e ipnotico anche il supporto vocale di Bobbie Gillespie (Primal Scream)
Orange Wedge appare quasi come una soglia tra due mondi: funk disidratato, riflessi di sole su superfici liquide, un momento per respirare, come una camera d’attesa prima della visione.
Let Forever Be, con Noel Gallagher degli Oasis, è un sogno anni ’60 intrappolato in una loop machine: un’illusione colorata, dove la nostalgia si fa digitale e i Beatles ballano nell’era dell’MDMA.
The Sunshine Underground è il cuore pulsante del viaggio: otto minuti di lenta ascesa verso una luce che non acceca ma scalda, una narrazione senza parole dove il beat si trasforma, si dilata, cresce come una pianta psichedelica e ti conduce in una danza estatica, lontana da ogni logica terrena.
Poi arriva Asleep From Day, con la voce fragile e celestiale di Hope Sandoval, una ninna nanna per adulti perduti, il sogno che arriva dopo l’euforia, un abbraccio tra le nuvole, dove tutto rallenta e si dissolve.
Got Glint? riporta movimento, ma non è solo ritmo: è come una domanda lanciata in mezzo alla folla, tra flash stroboscopici e sorrisi allucinati. La sua linea di basso è un serpente che scivola sotto i piedi, la sua atmosfera è quella di un club costruito dentro una navicella spaziale.
Ed ecco la punta di diamante. Il singolo “tormentone” di fine anni 90 che ancora fa ballare generazioni e generazioni. Hey Boy Hey Girl irrompe come un rituale tribale postmoderno: “superstar DJs, here we go!” diventa mantra, e la folla si fonde in un unico corpo. È l’apice del delirio, l’euforia trasformata in carne (e anche ossa visto il video). Più che un pezzo, un manifesto. Perchè dilungarsi a parlarne quando si può ascoltare a tutto volume?
Poi, quando tutto sembra finito, Surrender ci sorprende con la sua delicatezza sospesa: un invito alla resa, non come sconfitta, ma come liberazione, l’abbandono all’invisibile, alla vibrazione pura.
E infine Dream On, con Jonathan Donahue, suona come l’eco di un ricordo, il lento svanire del sogno. Chitarre tremolanti, voce velata, una dolce malinconia che chiude il cerchio. È come svegliarsi all’alba, quando il mondo tace e resta solo il battito del cuore.
Surrender non è solo un album, è un’esperienza. È un rito pagano in un tempio di luci, un diario scritto con sintetizzatori e polvere da discoteca. È il momento in cui l’elettronica smette di essere fredda e si fa emozione. I Chemical Brothers, qui, non fanno semplicemente ballare: accendono visioni, accarezzano memorie, e ci ricordano che arrendersi – a volte – è l’unico modo per sentirsi davvero vivi.