EDITORIALE – Se chiedete consigli sulla scena pop anni ‘80 ad un qualsiasi cultore musicale, anche di livello medio-basso, non possono che venirgli i brividi: la decade che ha visto lo sviluppo di 2 importantissimi e vastissimi generi come il metal e la new wave è stata anche la decade dell’esplosione della musica commerciale, banale, danzereccia e povera di contenuti, chiusa in un edonismo sfrenato e a tratti anche troppo esasperata.
Ma è stato veramente tutto da buttare? Poco veramente si salva, e tra questi spicca il duo, composto dal chitarrista Roland Orzabal e dal bassista Curt Smith rispondente al nome di Tears for Fears.

Secondo album della band e uno dei punti più alti del pop inglese del decennio è l’album pubblicato il 25 Febbraio del 1985, Songs from the Big Chair.
Musicalmente si nota una maggiore commistione dei synth e dell’elettronica con gli strumenti rock rispetto ai gruppi contemporanei, tanto da far sembrare il lavoro quello di una vera band.
Ma sono i testi il vero punto forte: dolenti, intimi, narrano di problemi privati, quasi sempre indirizzati ai traumi e alle delusioni dell’infanzia. Sembra di trovarsi nel mezzo di una seduta psicanalitica, e non è un caso che “tears for fears” sia il nome di un trattamento psicoterapeutico, o che il titolo dell’album sia ispirato a un telefilm in cui la protagonista, affetta da personalità multiple, trova conforto solo sulla “big chair” dell’analista.
Il brano di apertura Shout, intramontabile hit anni ‘80, si presenta come una epica cavalcata musicale che inizia con battiti elettronici e tastiere, per tramutarsi in un brano rock estremamente incalzante col passare dei minuti fino al finale sorretto anche da cori femminili.
Il testo è un inno positivo, un invito a prendere in mano la propria vita; nessuno può non sentirsi chiamato in causa da quell’”I’m talking to you, come on” del ritornello.
Cambio totale di atmosfera per The Working Hour, introdotta dal sax di Mel Collins, una ballata notturna che ci avvolge con gli accordi di piano e il sottofondo di tastiere, ma che risulta anche movimentata dalla sezione ritmica. Il culmine emotivo lo si raggiunge a metà brano, prima che il sax prenda il sopravvento in un lungo ed emozionante assolo.
Altra hit di livello mondiale è Everybody Wants to Rule the World, il brano più pop e immediato, e anche per questo forse il più scontato, chilometri più in alto comunque come qualità rispetto al pattume che dominava le classifiche dell’epoca.
Mothers Talks sfodera basso funky, batteria elettronica ritmatissima e tappeti tastieristici sintetici assortiti; sarebbe quasi ballabile se non fosse così agressiva e spigolosa. I Belive è un’altra ballata soul pianistica, ma troppo lenta e monocorde, sicuramente l’episodio meno riuscito del lotto.
In coda troviamo un curioso medley: Broken, un semi-strumentale rockeggiante trainato dalla chitarra apre e chiude un altro classico della band, Head over Heels, che inizia ricalcando il riff di Broken con il piano, prima di sfociare in un’altra splendida perla pop-rock, con voce in falsetto, cori e tantissimi suoni in sottofondo, particolarità che permette alla band di dilungare le canzoni senza mai farle sembrare noiose o ripetitive.
A chiudere troviamo Listen, il brano più atipico, una lunga composizione quasi totalmente strumentale eterea e sognante, in cui veniamo cullati dalle onde delle tastiere. In questo brano si sfiora l’ambient o la new age.
I 5 singoli vennero accompagnati da altrettante b-sides. In queste, quasi tutte strumentali, veniva dato sfogo alla vena sperimentale del duo.
Significativa è The Big Chair, che presenta samples dell’omonimo telefilm, mentre curiosi episodi sono la quasi industrial Empire Buildings e quella che è una versione embrionale di The Working Hour, When in Love with a Blind Man. Infine Pharaos contiene un sample della BBC sulle previsioni del mare e Sea Song è una cover di Robert Wyatt.
Si signori, questo disco è storia degli anni ’80!!