EDITORIALE – Cominciamo con il dire subito che per Lou Reed, New York non era un disco qualunque: “Con la maggior parte dei miei album ho sempre avuto la sensazione di essere nascosto, che non mi rappresentassero davvero nel momento in cui sono usciti”, ha detto nel 1989 a Jonathan Cott (Rolling Stone), “In New York invece non mi nascondo, sono io, è esattamente quello che so fare.” Siamo in pieni anni ‘80, lui non è esattamente un faro per la MTV generation, gli ultimi album – dal punto di vista commerciale – sono stati deludenti, torna a imporsi con un disco che non ammicca in alcun modo e, contro ogni previsione, vende oltre mezzo milione di copie. L’unico album studio di Lou Reed ad aver venduto tanto.
Il disco arriva in una fase di grandi cambiamenti per Lou. Tanto per cominciare, ha appena tagliato i ponti con RCA ed è passato a Sire.
Nel 1987 è morto Andy Warhol, suo amico e mentore. “È stata una grandissima protezione averlo in studio”, disse poi Lou (a proposito dei primi lavori con i Velvet Underground), “Quando a un certo punto, a proposito di quello che avevamo appena registrato, il tecnico di turno gli chiedeva ‘Signor Warhol, va bene?’, lui rispondeva sempre ‘Oh, è grandioso.’ Questo ci ha dato libertà totale all’epoca: nessuno avrebbe mai cambiato nulla, se per Andy era grandioso.” Una grande perdita a cui, dopo la lettura dei diari, pubblicati postumi, ha fatto seguito anche parecchio risentimento: Warhol non è stato affatto tenero con Reed. “Ti odiavano davvero, ora tutto è cambiato, ma io serbo del rancore che non potrà mai essere rimosso. Mi hai colpito dove fa più male, non ho riso. I tuoi diari non sono un degno epitaffio.”, canterà poi in Hello, It’s Me (1990). Nonostante il periodo non proprio facilissimo però, dopo un passato di alcol e droghe, quando nel 1988 Lou entra in studio per registrare New York, è pulito e completamente concentrato sul disco.
Infatti New York è uno stupendo disco di rock, con canzoni tirate (Strawman, Busload of Faith, There is No Time), altre meno (Sick of You, Romeo had Juliet) , altre ancora più rilassate che rimandano a volte ai Velvet Underground (Dime Store Mistery nella quale, guarda caso, c’è Maureen Tucker alla batteria,come anche in Xmas in February).
Tutto funziona al meglio grazie anche all’ottima vena della band e alle congiunzioni astrali favorevoli (quelle non devono mancare mai). Dicevo un gran disco di musica, ma anche un bellissimo libro di racconti su New York e delle amare storie che quotidianamente avvelenano la città. La verità secondo Reed nuda e cruda senza censure, dove Pedro vuole scappare via dallo sporco Boulevard “Portatemi gli affamati, gli stanchi, i poveri e gli piscierò addosso/questo è ciò che la Statua dell’Intolleranza dice/le vostre masse di poveri accalcati picchiamoli a sangue facciamola finita/ e buttiamoli nel boulevard”;
Il disco e le storie dove Sam non riesce a dimenticare gli orrori della guerra e del Vietnam, “Sammy stava nascosto nella giungla/il Napalm spalmato sul cielo come marmellata/Hendrix suonava da qualche jukebox straniero/loro pregavano di cavarsela/quei musi gialli erano feroci e coraggiosi/quello è il prezzo da pagare quando sei l’invasore”.
Ne ha anche per i crimini ambientali Lou Reed, come in Last Great American Whale “Beh, agli americani non importa niente di niente/men che mai dell’acqua e della terra/e la vita animale sta nella parte più bassa del loro totem/ con la vita umana che vale meno di schiuma infetta/ Agli americani non frega niente della bellezza/ cagano nei fiumi scaricano l’acido delle batterie nei ruscelli/ guardano i ratti morti sbattuti sulla spiaggia e si lamentano se non possono farsi il bagno. Dicono che le cose sono fatte per la Maggioranza/ non credere alla metà di ciò che vedi e a niente di ciò che senti è un po’ quello che mi diceva il mio amico pittore Donald: “ficca loro una forchetta in culo e voltali: sono pronti”.
Ma c’è anche spazio per il romanticismo e per la storia d’amore per eccellenza rivisitata nel titolo e nel contesto, con Romeo & Juliet che diventa Romeo Had Juliette, con storia trasportata nella Grande Mela tra storie di quotidianità difficili, droghe e violenza.
Può bastare? Un bellissimo disco, un bellissimo libro, tutto in uno. New York è la dichiarazione d’amore disperata di Lou Reed alla sua città sotto assedio, un amore che però non lo rende cieco di fronte a quello che sta succedendo. È il disco di chi ancora crede che la musica possa cambiare il mondo e non vuole arrendersi anche quando tutto sembra perduto. “È soltanto rock’n’roll” cantavano Mick Jagger e soci. “Soltanto” un piffero, risponde Lou Reed: “Ho impiegato circa tre mesi a scrivere le parole, poi ho provato a fornire loro l’ambientazione più adeguata, facendo in modo che il ritmo dei testi lavorasse nel modo giusto con le melodie, che le sfumature della voce permettessero all’ascoltatore di sentire bene quelle parole. Questo è il senso di questo disco. È la mia visione di quello che un album rock’n’roll può essere: non tutte le volte un’esperienza viscerale che poi svanisce in meno di un giorno. Io scrivo per una persona che ha ricevuto un’istruzione o per un autodidatta che ha raggiunto un certo livello. New York non è indirizzato ai quattordicenni.”
Proprio per questo motivo, non gli andò mai giù che nell’edizione italiana del disco – per questioni di censura – le traduzioni dei testi non ci fossero.