#TellMeRock, 25 giugno 1969: “Deep Purple” e quel confine tra psichedelia, blues e orizzonti hard rock

EDITORIALE – Il 1969 fu un anno di profonda rottura, un crocevia epocale in cui il mondo intero fu travolto da cambiamenti sociali e culturali senza precedenti: tensioni politiche, lotte operaie, rivendicazioni giovanili e il desiderio collettivo di abbattere il passato per costruire nuovi modelli di pensiero e di vita. In Italia, ancora legata alle melodie rassicuranti di artisti come Bobby Solo, Iva Zanicchi e Massimo Ranieri, lo scontro con la modernità globale appariva ancora più netto, ma al contempo irresistibile.

Nel resto del mondo, la corsa al cambiamento era già lanciata: il 21 luglio Neil Armstrong e Buzz Aldrin, con la missione Apollo 11, avrebbero toccato il suolo lunare per la prima volta nella storia, mentre prendeva forma ARPANET, il prototipo della futura Internet, rivoluzionando per sempre il concetto di comunicazione. In campo musicale, la trasformazione era altrettanto radicale: i Led Zeppelin pubblicavano il loro primo album a gennaio e il secondo a ottobre, i King Crimson ridefinivano il progressive con In the Court of the Crimson King, gli Who presentavano il loro visionario Tommy, i Pink Floyd uscivano con l’ambizioso Ummagumma, e tra il 15 e il 18 agosto, a Bethel, New York, si celebrava l’utopia collettiva di Woodstock, simbolo vivente di una gioventù in rivolta.

In questo scenario carico di energia e possibilità, i Deep Purple pubblicavano il loro terzo album omonimo, Deep Purple, uscito il 25 giugno negli Stati Uniti per la Tetragrammaton e a settembre nel Regno Unito per la Harvest: un lavoro che rappresenta il momento finale della cosiddetta “Mark I”, con Rod Evans alla voce e Nick Simper al basso, poco prima dell’arrivo della formazione leggendaria con Ian Gillan e Roger Glover.

L’album si colloca esattamente sulla soglia tra la psichedelia fine anni Sessanta e l’hard rock che dominerà il decennio successivo, con un songwriting più maturo e una forte inclinazione alla sperimentazione. Il brano d’apertura, Chasing Shadows, si distingue per l’originale struttura ritmica: Ian Paice propone un groove percussivo sincopato, influenzato da sonorità afro-rock, su cui si innestano chitarre psichedeliche e giochi stereofonici di grande effetto.

Blind, invece, si muove su binari più inusuali: un clavicembalo dal sapore rinascimentale domina la traccia, offrendo un’atmosfera austera che, sebbene curiosa, rischia di appesantire l’ascolto.

In netto contrasto arriva Lalena, cover del brano di Donovan, dove l’arrangiamento sobrio e il canto di Evans si adagiano su un tappeto malinconico d’organo, privo di virtuosismi ma ricco di pathos.

Con The Painter torna il dinamismo rock, grazie al consueto duello tra Lord e Blackmore che comincia a delineare l’anima del gruppo futuro.

Why Didn’t Rosemary? introduce il necessario elemento blues, autentico e vibrante, con riff trascinanti e atmosfere dense di energia.

A chiudere il disco arriva April, brano in tre movimenti che preannuncia Concerto for Group and Orchestra: si parte con un’introduzione acustica di Blackmore, si passa a una sezione orchestrale curata da Lord e si conclude con una coda rock che unisce le due anime del gruppo.

Deep Purple non è il capolavoro assoluto della band, ma è un passaggio fondamentale per comprendere la loro trasformazione: qui si percepisce la tensione verso qualcosa di più definito, più aggressivo, più moderno. Non sorprende che, poco dopo l’uscita dell’album, Evans e Simper – meno inclini a seguire questa nuova traiettoria – lascino il posto ai ben più carismatici Gillan e Glover, dando inizio alla fase più celebrativa della storia dei Deep Purple. Questo terzo lavoro, pur privo della potenza e dell’identità che esploderanno nei dischi successivi, rappresenta il punto di non ritorno: un momento in cui la psichedelia cede il passo all’hard rock e in cui la band comincia davvero a scrivere la propria leggenda. Un disco per troppo tempo ingiustamente sottovalutato o ignorato.

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