#TellMeRock, 25 Ottobre 1969: Ummagumma e le leggende metropolitane e sonore dei Pink Floyd

EDITORIALE – Leggende metropolitane. Quante ce ne sono nel rock…

Una delle più buffe riguarda Careful With That Axe, Eugene, mitico brano dei Pink Floyd pubblicato nell’album Ummagumma uscito il 25 ottobre del 1969. Il pezzo è anche nella colonna sonora di Zabriskie Point di Michelangelo Antonioni con il nuovo titolo di Come In Number 51, Your Time Is Up, oltre ad essere presente nel mitico Live at Pompei.

La leggenda popolare che circonda il brano è che sia stato scritto per Jerry Garcia dei Grateful Dead, che per colpa di suo fratello aveva perso un dito della mano destra in un incidente, quando i due erano bambini.

Ecco dunque che i Pink Floyd invitano Eugene a fare attenzione a quell’ascia, Careful With That Axe, Eugene, poco prima che Waters esploda in un urlo agghiacciante. La storia di Garcia è vera, il fatto che  Careful With That Axe, Eugene si stata dedicata a lui è falsa, anche perché suo fratello si chiamava Clifford.

L’urlo feroce di Waters sarebbe poi ritornato, quasi come un marchio di fabbrica, in altre canzoni dei Floyd, come Another Brick In The Wall, Run Like Hell e Two Suns in the Sunset.

Ultima curiosità: Careful With That Axe, Eugene fu suonata live per l’ultima volta il 9 maggio 1977 a Oakland, California; in quell’occasione Snowy White, il chitarrista arruolato per quel tour, si trovò appena lievemente a disagio, perché fu costretto a suonarla senza che nessuno gliel’avesse mai insegnata: non faceva infatti parte della scaletta e non era mai stata provata prima.

La storia, le vicissitudini, l’evoluzione dei Pink Floyd sono così peculiari e affascinanti da assumere statura di vero e proprio romanzo. Al di là dell’effettiva valenza della produzione musicale per la quale vale comunque e soprattutto il gusto soggettivo, vi è senz’altro un “unicum” di forte attrazione per le vicende che stanno dietro alla loro musica, cui non è da ritenersi secondaria l’enorme portata storica di questo gruppo.

E di questo romanzo “Ummagumma” rappresenta il quarto, sostanzioso capitolo: a quel tempo Syd Barrett, punto di riferimento creativo e di immagine degli inizi di carriera era fuori dai giochi da più di un anno, ma i suoi ex compagni ed il suo successore David Gilmour stavano ancora nel pieno di una lunga fase di rifondazione, che durerà tre anni e ben quattro album fino ad “Atom Heart Mother” compreso. Un triennio di esperimenti, di tentativi, di autoindulgenze e di intuizioni alla ricerca del suono Pink Floyd compiuto, che approderà felicemente al porto di “Meddle” per poi esplodere clamorosamente con le successive opere degli anni settanta.

Anche “Ummagumma” è quindi opera (fascinosamente) transitoria, ambigua, anomala sin dalla sua struttura di base: una parte dal vivo, un’altra in studio nella quale i quattro lavorano preterintenzionalmente da separati in casa, componendo ed eseguendo ciascuno una porzione del tutto, senza alcun aiuto da parte dei compagni. Più che una sfida una voglia di eccentricità, un “lo famo strano” , per dirla alla Verdone, costi quel che costi, consentito da un’irripetibile epoca di spinta idealistica e culturale, non solo in campo musicale.

Al tastierista Rick Wright, colui che aveva concepito l’idea di opere separate, l’onore di aprire le danze con “Sysyphus”, suite in quattro movimenti piuttosto pretenziosa con corali barocche alternate a pianismi romantici (a riferimento: Chopin) e all’opposto free (a riferimento: Monk). Wright vi riversa tutta la sua voglia di musica “seria”, uscendo fuori dai canoni e togliendosi quella posa da lord della band.

Le sorti del disco sono subito sollevate dalla sezione che ha come protagonista Roger Waters, bassista e compositore dotato di grande concettualità e strutturalità, con le quali forgia per l’occasione una mirabile ballata acustica descrittiva delle bellezze della natura contrapposte alla grigia urbanizzazione, a titolo “Grantchester Meadows”. Roger condisce l’evocativa sua progressione di voce e chitarre con una farcitura di iperrealistici effetti, tutti scovati nella fornitissima riserva di nastri dello studio di Abbey Road (luogo dove si registravano abitualmente anche commedie ed altro destinato alla radio). Mitica, alla fine della canzone, la trovata del moscone che rimbalza tra un lato e l’altro dell’immagine stereo, inseguito da ripetuti, indispettiti colpi di giornale, fino a quello fatale.

Il bassista si addentra poi nella più limpida sperimentazione rumoristica, sovrapponendo una miriade di brevi “loop” di nastri (niente computers, al tempo!) con la sua voce che esegue versi per lo più di animali (quali, non è dato saperlo, o intuirlo) ma c’è anche un “pitto”, un uomo primitivo, nell’allegra combriccola. La gazzarra, una specie di jam session etnica, va avanti per un bel pezzo finché entra in gioco un (finto?) ubriaco Waters che biascica frasi senza senso con accento scozzese…tutto questo in un album che arriverà sesto nella classifica inglese, proprio altri tempi! Il sobrio titolo della (ehm) canzone è traducibile in “Parecchie specie di piccoli animali da pelliccia riuniti insieme in una caverna mentre fanno ritmo con un Pitto”.

Se Waters è musicista per passione, volontà e organizzazione, Gilmour è invece musicista naturale, pieno di armonia e melodia nel suo approccio. Il suo contributo “The Narrow Way” mostra i pregi strettamente musicali del nostro, senza neppure sfiorare la profondità e strutturalità del suo compagno bassista. Il brano, diviso in tre distinte parti missate insieme l’una dopo l’altra, è un esercizio di buona melodia, ottime chitarre, suggestivi intrecci e bel canto…insomma. Buona parte della grandezza dei Pink Floyd futuri si dovrà alla coesione fra questi due talenti così diversi e complementari: il bassista intenso e progettuale, il chitarrista armonioso e “orecchiabile”. Quando l’unione fa la forza.

Infine Nick Mason risolve la sua allergia alla composizione e al non saper maneggiare altro strumento che le percussioni, giocando anch’esso, nella sua “The Grand Vizier’s GardenParty”, con i nastri in studio mettendo insieme un mazzetto di “loop” con incise semplici figure ritmiche (simboleggianti i diversi avventori della festa…) e montandole poi in successione. Mason però “bara” avvalendosi di un aiuto esterno, anche se assai intimo: le sonatine di flauto di introduzione e di epilogo sono eseguite infatti da sua moglie.

In antitesi con lo sperimentalismo, la diversificazione, la libertà e l’autoindulgenza della parte in studio di Ummagumma, quella dal vivo (che la precede nel cd) presenta invece i Pink Floyd nella autentica accezione di gruppo, magnificamente coeso e sicuro. I quattro classici, ripresi dalla tournèe nelle università inglesi dello stesso anno, fanno tutti ottima figura in versione dilatata e brillante rispetto all’originale in studio.

Si comincia con uno dei capolavori del povero Syd Barrett, “Astronomy Domine”: comprensibilmente privata della stralunata, inimitabile carica dadaista e psichedelica del suo compositore, acquista peraltro in potenza e compattezza. Gilmour, al contrario di Barrett chitarrista molto impostato e riverente (alla scuola rock blues), conduce il pezzo da par suo innestando poi il wah wah per uno dei suoi assoli più riusciti. Il brano si acquieta lentamente nella parte centrale facendo emergere la nenia mistica di Wright all’organo Farfisa, così suggestiva a rappresentare un’astronave fluttuante nelle vuote immensità. Nessuno fiata nella sala da concerto e l’atmosfera è veramente fantastica, poi il tastierista viene progressivamente raggiunto dai compagni per un’altra strofa finale, l’astronave rolla e ruggisce nuovamente nell’atmosfera di qualche pianeta e lentamente accosta e spegne i motori: splendida.

“Set The Controls For The Heart Of The Sun”, altro bel titolo da fuori di testa, ricalca lo schema della suddetta “Careful…” con un monocorde bordone in progressiva intensificazione, raggiungimento di un culmine parossistico e quindi lenta regressione. Il brano resta quasi completamente strumentale, con Mason che indugia sull’effetto tribale dei timpani e Wright che disegna figure arabeggianti e mistiche.

Più o meno simile l’atmosfera all’inizio di “A Saucerful Of Secrets”, prima suite composta dal gruppo nella sua carriera (dà il titolo al loro secondo album) e quindi esecuzione ancora più dilatata delle precedenti. Dopo alcuni minuti il brano ha uno scarto con Mason che con le bacchette di feltro smette di martoriare i piatti e si rivolge ai timpani, Gilmour continua ad emettere rumoristica varia dalla sua Stratocaster finché emerge Wright, lasciato di nuovo solo prima col Farfisa e poi con l’Hammond a disegnare suggestivi e solenni accordi che sfociano infine nella corale di Gilmour, sostenuto da tutto il gruppo. Episodio di storica importanza  che segnerà la svolta dei Pink Floyd dalle canzoncine psichedeliche (e geniali) di Barrett alle robuste, concettuose (e affascinanti) suites che verranno.

Un vero peccato che a suo tempo, per ragioni di spazio, non sia stata inclusa l’esecuzione dal vivo della grandiosa “Interstellar Overdrive” (sempre di Barrett) e non sia neanche stato possibile recuperarla al momento della trasposizione dell’opera su cd. Pare siano irrimediabilmente spariti i master…

Disco assolutamente unico, Ummagumma rappresenta l’evoluzione del gruppo come nessun altro ed il suo ruolo all’interno della discografia dei Floyd è certamente centrale.