EDITORIALE – Anno 1997, quindici anni da compiere e scoperte musicali da ascoltare e approfondire. Mi stavo avvicinando ai Black Sabbath, entrando inesorabilmente nel loop che non esisteva miglior frontman di Ozzy Osbourne per la band, fino a quando la cronologia discografica mi portò al 1980.
In quell’anno nei Sabbath era appena entrato Ronnie James Dio e il piccolo oriundo italiano, forte di una grandissima personalità, di una altrettanto grande esperienza già all’epoca venticinquennale (Elf, Rainbow tra gli altri gruppi nel suo curriculum vitae) e forte soprattutto di una grande voce, una delle più belle di sempre nel mondo hard ‘n’ heavy, era riuscito nell’impresa di rivitalizzare un gruppo che aveva scritto pagine leggendarie, ma che dopo l’abbandono -o l’allontanamento, se preferite- di Ozzy Osbourne, era entrato in una spirale di crisi creativa che molti credevano irreversibile, partecipando attivamente “solo” scrivendo tutti i testi (nell’album successivo firmerà anche la musica) ma firmando di fatto il suo successo mediante il suo marchio vocale ed infondendo nuova linfa vitale al trio Butler-Iommi-Ward, tutti autori di una prova maiuscola, specialmente per ciò che riguarda i soli di Iommi, mai così espressivi in precedenza.
E così, il 27 aprile dell’80, esce Heaven and Hell, capolavoro assoluto del panorama metal e primo disco della band inglese con Dio alla voce. Il nono album coincise, tra l’altro, con l’esplosione della nwobhm ( al secolo: New Wave of British Heavy Metal ), che rischiava di decretare la fine di molti gruppi legati musicalmente ai 70’s, con gruppi in ascesa quali Saxon, Iron Maiden e Judas Priest. Non che Heaven and Hell suoni molto moderno a confronto con la nuova ondata, ma il platter è così bello che, pur essendo abbastanza lontano dai nuovi modelli, consentì ai Black Sabbath di rientrare nel grande giro e di farlo con una classe che li distingueva di gran lunga dagli emergenti.
Neon Knights irrompe e sembra distruggere i microsolchi vinilici, un classico opener alla Ronnie Dio, giusto per mettere subito le cose in chiaro, ed anche Children of the Sea e Lady Evil hanno, pur in modo diverso, il marchio Dio, bellissima soprattutto la prima, un must per appassionati che ha segnato un intero periodo e che ancora oggi, a distanza di quarantatré anni dalla sua uscita, possiamo tranquillamente considerare come uno dei brani più rappresentativi del periodo ed in generale dell’intero movimento, tanto che il tempo non la ha intaccata minimamente.
La ritmica di questo disco è molto azzeccata, i tempi vengono rispettati con millimetrica precisione da tutti i membri della band, il che consente, in alcuni tratti, alla batteria di Bill Ward, di distaccarsi dal ruolo prettamente di backgrounding che essa ricopre, e di far notare in maniera più decisa il suono delle bacchette a contatto con le pelli delle casse.
Ride out, protectors of the realm
Capatin’s at the helm, sail across the sea of lights
Circles and rings, dragons and kings
Weaving a charm and a spell
Blessed by the night, holy and bright
Called by the toll of the bell
Ho voluto riprendere un passaggio dello splendido testo di questa canzone per puntualizzare una cosa. Grazie a ciò ci si rende conto della grande influenza che possa aver avuto avuto il pensiero di Ronnie James nelle scelte di songwriting della band, che per la prima volta introduce storie a sfondo cavalleresco-fantasy nelle sue liriche, ricreando in questo pezzo la vita di alcuni cavalieri che prediligevano la notte come periodo della giornata adatto ad agire, poiché quando le tenebre, grazie al suono di una campana, li richiamano all’ azione, i cavalieri benedetti dall’ oscurità facevano la loro comparsa.
La side “A” si conclude con la titletrack, decisamente più sabbathiana, ossessiva ed oscura nella prima parte, ma poi sfocia in una seconda in crescendo che porta alla fine senza fiato -ma Dio dimostra di averne, eccome- quando solo con l’arpeggio finale i Sabbath mollano la presa.
Wishing Well apre bene la side “B” e porta al secondo capolavoro: Die Young. Niente descrizioni, bisogna solo ascoltare, classe e potenza pura in un songwriting per true-metaller solitari.
Solo Walk Away sembra messa lì quasi come filler, ma lo si può perdonare. Lonely is The Word è ancora molto made in Dio e chiude il lavoro alla grande.
La maestosità di questo disco, viene ancor più rimarcata dal contesto storico da cui è nato, ed a cui ho accennato prima. I Black Sabbath erano chiamati a riscattare un periodo piuttosto grigio ed a scacciare alcune malelingue, che avevano messo in giro delle dicerie come quella secondo la quale il basso in questo disco non fosse stato suonato da Geezer Butler, bensì da Craig Gruber. Chiacchiera che la band si affrettò subito a smentire sia a parole e sia, soprattutto, con i fatti, proponendo ai fans un Geezer Butler rigenerato in tutto e per tutto.
Commentare questo disco mi sembra oltremodo deleterio, ogni buon metaller sicuramente lo conoscerà anche meglio di me.
Voglio dare un consiglio ai ragazzi che si avvicinano da poco a questo genere di musica e che per la prima volta si trovano innanzi ad un disco di queste dimensioni artistiche: non vi soffermate ad ascoltarlo solo una volta: prima di giudicarlo, dedicategli tempo, “Heaven And Hell”, come tutti i capolavori del mondo dell’ Heavy Metal, è una creatura che bisogna curare col tempo, come una pianticella che deve diventare, col passare degli anni, un rigoglioso albero.
Sono passati tantissimi anni e poche altre band hanno fatto di meglio, la grande storia del rock che non muore mai perché è fatto di sangue e sudore, di classe e ribellione, di stile di vita e dell’essere fieramente “contro”, sempre in bilico tra Paradiso e Inferno.