#TellMeRock, 27 Maggio 1963: The Freewheelin, il nuovo folk targato Bob Dylan

EDITORIALE – In nessun modo si possono spiegare gli oltre 60 anni di musica di Bob Dylan, senza parlare di Blowin’In The Wind, il brano con cui Robert Allen Zimmermann diventa Bob Dylan e si presenta al mondo con una chitarra e un’armonica prendendolo a calci e pugni.

Il brano vede la luce il 26 luglio del 1962. Dylan e David Blue, un altro artista folk dell’epoca, avevano trascorso l’ultima parte del pomeriggio a bere caffè e chiacchierare. Verso le cinque Bob Dylan tirò fuori la chitarra, un pezzo di carta e una matita e domandó se poteva provare un abbozzo di canzone che aveva composto qualche ora prima, correggendone frasi e rime.

Subito dopo si spostarono al Gerdes Folk City, il locale del Greenwich Village di New York dove stava fiorendo la rinascita del Folk. Lì Blowin’In The Wind venne presentata ufficialmente al pubblico che, al termine della canzone, si alzò in piedi per applaudire. Quella fu la prima standing ovation per Dylan.

La canzone è in realtà, anche se è difficile da credere, l’adattamento di uno spiritual nero, No More Auction Block, originariamente cantato dagli schiavi neri in Canada. Lo stesso Dylan ha ammesso negli ultimi anni la fonte originale. Senza problemi bisogna ammettere anche che il cantautore americano ha sempre avuto ragione su una cosa: cioè che il rock folk vive di riadattamenti e storie. Perché forse è davvero questo l’unico modo per tenerla in vita, ma fatto sta che Blowin’ In The Wind ha mantenuto in vita il folk e, allo stesso tempo, inaugurato un’epoca di diritti civili, di contestazioni, di sogni e di utopie.

Pensate a quanto può fare una canzone, anche se ha solo domande. Perché, come si sa, le risposte soffiano nel vento.

Il brano fa parte dell’iconico The Freewheelin, pubblicato il 27 maggio 1963, che iscrisse il giovane Dylan (critica e pubblico concordi) nell’elenco dei grandi folk-singers americani.

Registrato nel corso di un lungo anno travagliato (tra il cambio di produttore, la lontananza dalla Rotolo, il viaggio in Inghilterra, l’impegno per i diritti civili) The Freewheelin è il manifesto del nuovo folk, destinato a rimanere una pietra miliare per gli sviluppi del genere. Dal linguaggio alla forma, nonostante un rispetto di canoni solo apparente, tutto è stravolto: la leggerezza e immediatezza con la quale si aggiorna la tradizione popolare ha dell’incredibile. Il registro è quello del beatnik, le melodie sono protagoniste nello scuotere il rigore austero del genere. Il popular che diventa pop, ecco.

Dylan incarnava perfettamente lo scorcio d’epoca del quale stiamo parlando. In più era un provinciale, uno che si portava dietro il vero cuore americano (la provincia, appunto, ma anche le origini ebree). Uno che era arrivato a New York perché “Hibbing era il vuoto assoluto. Sono andato via e ho continuato a farlo perché mi annoiavo”. Una serie di pulsioni (la fuga dalla marginalità, la tensione verso i centri nevralgici della modernità, la costruzione di una soggettività autonoma) risolte nel folk. E chi pensa che Dylan arrivò al rock’n’roll nel 1965 sbaglia. Come tutti gli adolescenti degli anni Cinquanta Dylan idolatrava Little RichardsElvisBuddy Holly, suonando in gruppi rhythm and blues e impomatandosi i capelli come richiedeva la moda del tempo. Furono però i circoli beat progressisti di Minneapolis a formare un giovane Zimmerman ossessionato da Guthrie e divoratore di folk. Questo il Bob Dylan che nel dicembre del 1960 giunse a New York. Il Greenwich Village (bassi affitti e brulicare di artisti, poeti, musicisti) era il luogo perfetto dove cominciare a fare sul serio.

Per questo The Freewheelin diventa un manifesto per l’epoca, e non solo per la sopra citata Blowin’In The Wind. La grande scrittura la si ritrova approfondita e impreziosita nello splendido fingerpicking della ballad Girl From the North Country: un Dylan maturo, perfettamente conscio dei suoi mezzi, che dimostra di essere legatissimo alla tradizione riuscendo però a sfornare un brano capace di ammiccare alla modernità con un linguaggio fresco ed efficace. Il pezzo che tutti vorrebbero scrivere e di cui qualunque ragazza vorrebbe essere destinataria (“Please see if her hair hangs long / If it rolls and flows all down her breast / Please see from me if her hair hangs long / That’s the way I remember her best”). La distanza e la perdita, i ricordi, la nostalgia, il tutto convogliato in un affresco dai colori sfumati, in una dichiarazione straziante di affetto purissimo.

Straziante quanto il lungo componimento di A Hard Rain’s A-Gonna Fall, col suo ritmo regolare e cadenzato da anafore incalzanti, dalle quali scaturiscono visioni stranianti (“I saw a newborn baby with wild wolves all around it / I saw a highway of diamonds with nobody on it / I saw a black branch with blood that kept drippin’ / I saw a room full of men with their hammers a-bleedin’ / I saw a white ladder all covered with water / I saw ten thousand talkers whose tongues were all broken / I saw guns and sharp swords in the hands of young children”) dove si vanno inevitabilmente a fondere le anime del cantastorie e del poeta colto, creando un linguaggio ibrido, ricchissimo e nuovo.

O ancora la dolcissima Don’t Think Twice It’s All Right, con quei ricami chitarristici dove si rincorrono eleganti modulazioni e si sfoggia un raffinatissimo senso della melodia.

Altrettanto notevole è il lato “impegnato” della poetica Dylaniana, rappresentato dal j’accuse di Masters of War, apocalittico atto di denuncia dove si toccano apici di concitazione estrema (“And I hope that you die / And your death’ll come soon / I will follow your casket / In the pale afternoon / And I’ll watch while you’re lowered / Down to your deathbed / And I’ll stand over your grave / ‘Til I’m sure that you’re dead”) per un pezzo anticipatore delle istanze ribellistiche della grande stagione delle rivolte studentesche.

Non sono da meno i blues, quelli ironici e scattanti di Bob Dylan’s Blues o di Oxford Town, o il Talkin’ World War III Blues, esercizio ben riuscito di allacciamento allo stile di Guthrie e alla natura sardonica tipica del giovane autore.

Non finisce qui, perché sono almeno altri due i pezzi forti di questa interminabile enciclopedia di nuovo folkI Shall Be Free, con la sua metrica rigorosa votata a creare la massima musicalità, e la bellissima Corrina, Corrina, romantica ballad folk-rock che non avrebbe sfigurato nei celebri album del ’65 o del ’66, dove la cura degli arrangiamenti rivela l’ennesima anima del brillante “ex Zimmerman“.

La copertina dell’album raffigura una fotografia di Bob Dylan a passeggio sottobraccio con Suze Rotolo, la sua fidanzata dell’epoca. La foto venne scattata nel febbraio 1963, qualche settimana dopo il ritorno della Rotolo dal suo viaggio in Italia, dal fotografo della CBS Don Hunstein all’angolo tra Jones Street e la West 4th Street nel Greenwich Village, New York City, vicino all’appartamento dove ai tempi viveva la coppia

The Freewheelin è un lavoro che – ancora oggi, a oltre sessanta anni dalla sua pubblicazione – non conosce stanchezza, che riesce a fondere il Kerouac di Mexico City Blues e il Ginsberg di Howl, mantenendosi però in una cornice formalmente tradizionale, dove le innovazioni stanno nel linguaggio e nella resa comunicativa più che negli stilemi musicali del genere. Un approdo alla modernità, una modernità nella quale Dylan si inserisce alternando il ruolo di interprete scanzonato, di critico implacabile, di visionario folle. Nessuno spazio, se non in aperture romantiche e idealistiche, alla nostalgia e al rétro. Il lavoro di Dylan è tutto teso in avanti, impegnato in un percorso in salita che lo porterà a conquistare molte vette (il trittico “Bringing It All Back Home”, “Highway 61 Revisited”, “Blonde On Blonde”), di cui questo The Freewheelin è uno splendido presupposto, un grande classico del quale non possiamo che essere riconoscenti al genio poliedrico di Bob Dylan.

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