#TellMeRock, 27 Marzo 2005: Lullabies To Paralyze e la consacrazione ansiogena del nuovo corso dei Queens Of The Stone Age

EDITORIALE – In molti identificano i Queens Of The Stone Age con il capolavoro Songs For The Deaf che li aveva rivelati alle masse con il singolo No One Knows ma, soprattutto, li avevamo lasciati con l’etichetta di rock band simbolo della prima metà degli anni 2000 e, forse, di gruppo più importante in circolazione nel circolo del rock “pesante”. Già, perché quando sforni tre capolavori di fila si fa presto a iniziare coi rimandi storici: sfilze del genere li hanno infilati i Beatles, i Pink Floyd gli Stooges, i Nirvana, i Radiohead e pochi altri.

Si può capire dunque quanta attesa ci fosse attorno al quarto album della band capitanata da Josh Homme (ex Kyuss). Nel frattempo però c’è stato l’allontanamento (vabbè diciamo pure la cacciata) del bassista Nick Oliveri da parte di Homme. Evidentemente il pollaio era diventato troppo grande per i due galletti. A complicare ulteriormente le cose anche gli impegni di Dave Grohl (leader dei Foo Fighters) che gli impediscono di riprendere il posto abituale alla batteria e quelli di Mark Lanegan (impegnato all’epoca con l’album Bubblegum) che lo obbligano a brevi comparsate. Capirete come la fenomenale line-up di Songs For The Deaf sia stata completamente stravolta per fare posto all’ingresso di Joey Castillo (batteria) e Troy van Leeuwen (chitarra). Le premesse non erano insomma delle migliori ma, come al solito, l’ascolto supera i pregiudizi, facendo così apparire Lullabies To Paralyze, pubblicato il 27 marzo 2005, un gioiello di puro rock schietto e diretto, fatto di ritmi e testi pesanti.

Apre le danze la calda voce suadente del compianto Mark Lanegan nella soffice This Lullaby, poi arriva la scatenata Medication con un chitarrone devastante quanto breve (poco più di un minuto).

 Everybody Knows That You’re Insane ci insinua in un’atmosfera psichedelica subito infiammata da cambi di ritmo repentini e troneggianti. Tangled Up In Plaid inizia con un’andatura sobbalzante e prosegue con il tentativo di alzare il livello, con un assolo tanto acido quanto spettacolare.

https://youtu.be/1Xnm7leqOw0

Poi arriva Burn The Witch,  pezzo che segue i connotati stabiliti dal brano precedente e vede la partecipazione del frontman degli ZZ TopBilly Gibbons il quale, col suo imprinting southern, contribuisce alla realizzazione di un pezzo tenebroso dall’andatura altalenante. Un brano simbolo dei miei pomeriggi universitari su Radio Rock

In My Head riporta Homme in copertina con un suono che rievoca i fasti raggiunti dal gruppo con i primi album, ma è con Little Sister che torna la voglia definitiva di lanciarsi in piedi in mezzo alla stanza a simulare batteria, chitarra e canto come farebbe anche il più scemo ragazzino quattordicenne. Un tormentone capace di entrare in testa e rimanerci anche per diversi anni, chi vi scrive ne è la prova vivente.

 I Never Came rallenta forse eccessivamente il ritmo ma prepara alla maratona di Someone’s In The Wolf. Nasce come un muro di cemento e cresce come una sfuriata psichedelica i cui rimandi portano addirittura il ricordo vago delle impalcature architettoniche dei Kyuss. Si rimane ossessionati in senso positivo dal riff ripetuto in continuazione per oltre cinque minuti, poi breve pausa di riflessione e esplosione finale. Da paura!

https://youtu.be/Z33MyzOwjHE

La seconda parte del disco è piena di angosce, in cui riemerge il passato recente dei Queens of the Stone Age fatto di brani stoner offuscanti. L’agitazione si può tagliare a fette, e ne è dimostrazione Someone’s in the Wolf. L’appannamento viene mantenuto alto sulla confusionaria The Blood Is Love, nella quale si possono udire addirittura atmosfere sonore circensi.

Skin on Skin è uno dei brani più particolari del lotto: indefinibile nel sound (rock, alternative, industrial?), sintetica e meccanica nelle linee melodiche.

Broken Box è una parentesi assurda ma piacevole fra rock’n’roll ed elettronica mentre You Got a Killer Scene There, Man… è un omaggio sofisticato al blues ed al cantautorato americano.

Long Slow Goodbye chiude il cerchio alternando note di malinconico folk rock tipico della scrittura di Lanegan a nostalgici arpeggi stoner più propriamente appartenenti ai QOTSA. Una degna chiusura.

https://youtu.be/LLji1buqZOk

Nonostante l’ambivalenza, Lullabies to Paralyze gode di una strana compattezza manifestata perlopiù nella natura ansiogena del prodotto. Seppur apparentemente diverse fra loro, le tracce sono accomunate dal turbamento, presente anche inizialmente ma vagamente nascosto dall’aura radiofonica delle canzoni, mentre palesemente esplicitato successivamente. Ciò rende alcuni passaggi criptici e persino mistici racchiudendo il fascino di ciò che risulta ancora inesplorato. Un lavoro che continua a regalare nuovi stimoli.

Un album dunque buono nel suo genere, che riesce comunque a zittire i denigratori di Homme che lo accusavano di non esser riuscito a sopportare il genio di Oliveri. Lo stravolgimento della formazione ha portato di fatto ad un’egemonia assoluta di Homme e ne è venuto fuori un buon album tipicamente stoner senza troppi sbalzi stilistici. Più omogeneo magari ma meno scorrevole dei precedenti.