EDITORIALE – E adesso che fare della canzone? John Lennon l’aveva scritta di getto come spesso accadeva in quegli anni ispirati e fecondi. Timothy Leary e sua moglie Rosemary erano andati a trovare lui e Yoko al Queen Elizabeth Hotel di Montreal, nella stanza al diciannovesimo piano dove tenevano un bed-in a favore della pace. Erano stati carini e John li aveva anche prontamente reclutati per il coro di Give Peace a Chance.
In quell’occasione Leary aveva chiesto a John se avesse una canzone adatta a diventare lo slogan della sua campagna elettorale per diventare governatore della California. John sorrise, sapeva bene che Leary era pazzo e che la sua candidatura contro Ronald Reagan era nient’altro che una provocazione, al pari di quando aveva proposto di mettere grandi quantità di Lsd nell’acquedotto di San Francisco, però si lasciò comunque coinvolgere.
Aveva preso lo slogan di Leary – come together, join the party – e ne aveva fatto una canzone. Gli piaceva il doppio senso, perchè party significava tanto festa che partito politico e l’invito a unirsi al party aveva dunque una doppia valenza, sociale e ludica.
Dopo pochi giorni però, e dopo che Leary l’aveva già fatta trasmettere dalle radio indipendenti di San Francisco, Lennon si era posto qualche domanda di troppo. Leary era simpatico ma inaffidabile ( e presto sarebbe finito in carcere e condannato a vent’anni per possesso illegale di marijuana) e quella canzone poteva funzionare, a patto di cambiarne il testo. Non era dunque meglio darla ai Beatles? Lennon rispose a se stesso di si e così entrò nelle sessioni di Abbey Road con la canzone sottobraccio, dopo aver cambiato il testo, aggiunto qualche nonsense tipico dei suoi e anche qualche obliquo riferimento ai compagni di band: il santo tirasassi del testo è George Harrison, mentre il tricheco con gli stivali di gomma è Paul McCartney.
E Leary? si arrabbiò non poco, ma John rispose garbatamente: lui era un sarto e Leary un cliente. Ora che non aveva più bisogno del suo vestito, perchè non sarebbe mai diventato governatore della California, poteva venderlo a qualcun altro, senza alcun senso di colpa.
Il 1969 è uno di quegli anni di transizione per la musica rock; il rock and roll classico e il rock/pop se ne stanno andando e con loro la storica rivalità Beatles-Rolling Stones, ma anche gli stessi Beach Boys, e, specialmente in Regno Unito, si cercano nuove forme musicali.
Ed è in questo caotico panorama che emergono quelli che poi saranno di gran lunga i protagonisti dei mitici anni Settanta: dopo il fenomeno psichedelia del 1967 e la nascita dei Pink Floyd e dei Doors, dopo le grandi sperimentazioni di Frank Zappa, Captain Beefheart e dei Velvet Underground, dopo i primi lunghi assoli di chitarra firmati Jimi Hendrix, è proprio nel 1969 che nascono altre due correnti che rivoluzioneranno il modo di comporre musica rock. Il 1969 è l’anno di In the Court of the Crimson King che segna l’inizio dei King Crimson e del rock progressivo, che in quello stesso anno assiste al debutto di altri due gruppi storici che lo caratterizzeranno quali Genesis e Jethro Tull (per la band di Ian Anderson si tratta del debutto progressive, non di quello assoluto avvenuto l’anno prima). Ma il 1969 è anche l’anno dei Led Zeppelin e dei loro primi due album che, insieme al contemporaneo esordio dei Deep Purple, danno il via allo stile hard rock che influenzerà tutta la musica che da lì in poi si baserà su duri riff di chitarra.
E se i nuovi gruppi emergono, i Beatles sono giunti alla fine della loro gloriosa carriera: dopo il modesto album “Yellow Submarine”, che ripesca da Revolver il famoso brano omonimo e la stessa All You Need Is Love, singolo del 1967, ecco il penultimo lavoro della band di Liverpool, uno dei migliori.
In Abbey Road, pubblicato il 27 Settembre del 1969 e omaggio alla via che ospitava lo studio delle loro registrazioni, i Beatles hanno già messo da parte il sitar e ogni velleità psichedelica (vedere Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band) per mescolare i nuovi stili emergenti. Ne esce un album in cui Harrison ha il suo bel daffare con la chitarra, nel quale si hanno accenni di hard rock (ma non così aggressivo come quello dei Led Zeppelin), già sperimentato un anno prima nel White album con Helter Skelter, ma anche di progressive (che però non è portato all’estremo come lo sarà negli anni settanta con le lunghe suite e le canzoni che sfondavano il muro dei dieci minuti), il tutto condito del solito stampo pop (cori in sottofondo, melodismo) che la band di Liverpool non ha mai abbandonato nonostante le sue numerose sperimentazioni.
Un pezzo di storia dell’album è sicuramente la copertina: era infatti l’8 agosto del 1969 quando i Fab Four attraversano la famosa via in abiti eleganti e dietro è parcheggiato lo storico maggiolino. La foto fu scattata dal fotografo Ian MacMillan. Una copertina talmente famosa da essere scimmiottata dai Red Hot Chili Peppers nella loro raccolta Abbey Road EP nella quale John Frusciante e compagni vestono solo dei loro calzini e non ai piedi, ma avete capito bene dove. In questa, come in tutte le copertine degli album successivi al 1966, si troverebbero degli indizi che alimenterebbero la famosa leggenda della morte di McCartney. Egli è infatti fuori passo rispetto agli altri (piede destro avanti anziché il sinistro) e sulla targa del maggiolino c’è scritto “28IF” (“28 SE”, come a dire “28 anni SE fosse ancora vivo”).
Leggende a parte, il disco è un continuo crescendo: la prima facciata è caratterizzata da brani pop (specialmente le mccartneyane Maxwell’s Silver Hammer e Oh! Darling) tra i quali spicca anche la seconda composizione solista di Ringo Starr (chiamato con il suo nome originale, Starkey, nell’album), pezzo piacevole ma niente di più, intitolata Octopus’s Garden, anche se secondo voci sembrerebbe che sia stata scritta da George Harrison, che l’avrebbe aiutato a comporre il ritornello.
Da notare che i due pezzi meglio riusciti del lato A sono entrambi cantati da Lennon (sarà un caso?): La sopra citata Come Together, altro accenno di hard rock con riff aggressivi di Harrison, e soprattutto I Want You (She’s So Heavy) primo brano progressive dei ragazzi di Liverpool e uno dei pochi nei quali lo strumento risalta decisamente di più delle parti vocali (da notare anche i quasi otto minuti di lunghezza). Il lato B, dopo l’ottima prova di Harrison compositore con la chitarra acustica in Here Comes the Sun, lascia spazio alla melodica Because prima di entrare finalmente nel vivo.
George Harrison compose Here Comes The Sun in un 1969 davvero difficile per lui. Era stato infatti arrestato per possesso di marijuana, operato di tonsille ma, soprattutto, era sempre più disgustato dalle interminabili riunioni d’affari che rubavano tempo prezioso alla creatività musicale dei suoi Beatles.
L’atmosfera alla Apple era diventata quasi irrespirabile, per colpa di diatribe interne e di manager che cercavano di spartirsi le aree di competenze.
Una mattina Harrison si rese conto che la Apple stava diventando come a scuola, quando ti senti impotente e ci sono altre persone che vogliono entrare nella tua testa e vogliono decidere per te. Così, decise di marinare la lezione, preferendo un viaggio nella campagna inglese, a Ewhurst, nel Surrey, dove aveva casa l’amico Eric Clapton.
Lì, nel giardino di casa Clapton, felice come un bambino che aveva mancato al suo dovere, e con la sua chitarra a tracolla, scrisse di getto Here Comes The Sun.
In testa Harrison, mentre componeva il brano, aveva tre elementi: il gelo dell’inverno inglese, così intenso che quando arriva il sole della primavera è una gioia per tutti. Il sole della spensieratezza, perché a volte basta poco per rendere felice un Beatle che apparentemente, ma solo apparentemente, ha tutto, e poi Badge, una canzone scritta a quattro mani con Clapton e incisa da Eric con i suoi Cream, con un riff arpeggiato di chitarra che ricordava molto da vicino quello di Here Comes The Sun.
Un altro pezzo eccezionale, chiamato You Never Give Me Your Money, altro esercizio di progressive nel quale le prime due parti cantate (decisamente diverse tra loro) sono congiunte alla terza, altrettanto diversa, da un splendido assolo in crescendo di Harrison, ci introduce finalmente al primo medley: apre la melodica Sun King, a seguire Mean Mr. Mustard e Polythene Pam, altro riff scatenato accompagnato dall’aggressiva voce di Lennon, fino allo stop dell’ascesa in She Came in Through the Bathroom Window, che nella sua prima parte accelera il ritmo di Polythene Pam ma si ferma al ritorno della voce di McCartney.
Terminato il primo medley si passa al secondo che comprende quattro brani e conclude l’album: anche qui è un brano melodico, Golden Slumbers, che apre le danze, ed è seguito dall’ottimo Carry That Weight, un coro al quale partecipano tutti, che, dopo un altro assolo-raccordo di Harrison, riprende con il motivo iniziale della sopra citata You Never Give Me Your Money prima di risfociare nel coro collettivo.
Il crescendo che accompagna tutto l’album si spegne in The End, di fatto l’ultimo pezzo del disco, che richiama anch’esso all’hard rock e in parte anche al progressive. Il brano è in pratica un saggio di batteria di Starr, uno dei frequenti assoli (l’unico di Ringo nella storia dei Beatles) che si troveranno spesso in dischi hard rock o heavy metal (come non ricordare, quello stesso anno, John Bonham dei Led Zeppelin in Moby Dick?) e, dopo qualche intermezzo di chitarra, McCartney pronuncia quella che forse è la più famosa massima dei Beatles: “and in the end the love you take is equal to the love you make” (“e alla fine l’amore che ricevi è uguale all’amore che dai”). Come ulteriore conclusione vi è una piacevole e brevissima appendice chiamata Her Majesty, un simpatico blues concentrato in meno di trenta secondi.
Abbey Road sarà il penultimo album dei Beatles, l’ultimo con George Martin alla produzione, del quale, nonostante le numerose sperimentazioni, si sentirà sempre la mano nelle orchestre che accompagnano soprattutto i brani melodici, che nel repertorio dei Beatles non sono pochi.
I medley di Abbey Road, una sorta di suite, rappresenteranno uno dei punti più alti a livello artistico della loro carriera: i brani presi da soli forse potrebbero sembrare non troppo differenti dalle numerose canzoni pop che hanno fatto dei Beatles una band di successo, ma la forza di questo album è la visione d’insieme che lo rende decisamente migliore rispetto a quella che sarebbe potuta essere una semplice raccolta di brani, oltre naturalmente alla costante presenza di pezzi innovativi di stampo progressive.
Un tardo capolavoro di una band in via di scioglimento, che passerà il testimone l’anno dopo a nuovi gruppi e nuove maniere di fare musica.