EDITORIALE – Non è facile affrontare e recensire un disco di Bob Dylan. Il cantautore americano, dopo una carriera lunga una vita e tuttora in attività, si è giustamente guadagnato il titolo di leggenda del rock; rock considerato stile di vita e genere che abbraccia tutte le sfaccettature, avendo vissuto l’alba della nostra amata musica dagli anni 60 ad oggi ed essendo stato fonte ispiratrice per centinaia di migliaia di band ed artisti, oltre che colonna sonora di varie generazioni.
Se però è vero che quasi chiunque su questa Terra abbia ascoltato e canticchiato almeno una volta qualche brano di Bob Dylan, è altresì vero che la sua musica non è di così facile assimilazione, soprattutto in confronto alla musica moderna, rock, pop o folk che si voglia, lontana dal mainstream, dalle melodie e dai ritornelli facili, profondamente introspettiva ed assente della componente tecnica come intesa ai giorni d’oggi.
John Wesley Harding, pubblicato il 28 dicembre del 1967, è un album di transizione, un ritorno a sonorità acustiche tipicamente folk dopo alcuni dischi elettrici per l’epoca moderni, tra cui il capolavoro Blonde on Blonde.
Il ritorno alle origini acustiche, ad un sound più intimista pare sia da ricondurre ad un episodio della vita del cantautore: il 29 luglio del 1966 fu coinvolto in un gravissimo incidente stradale a bordo della sua motocicletta e ci mise diversi mesi per ristabilirsi. Anche per le sessioni di composizione e registrazione impiegò molto più tempo del solito, il tutto avvenne negli studi privati presso la sua abitazione a Woodstock e come solito Bob Dylan si occupò della maggior parte degli strumenti, fra cui quelli dominanti sono la chitarra acustica e la fisarmonica.
John Wesley Harding era un fuorilegge del vecchio west, figura leggendaria ma realmente esistito, deceduto nel 1895 all’età di 43 anni, ed i brani del disco, pur senza essere un vero e proprio concept album, parlano dell’emblematico personaggio Harding, di fuorilegge, di religione, del bene e del male, accompagnati da una musica in cui è necessario immergersi totalmente per godere e comprendere l’album come si deve.
Tra i brani spiccano sicuramente le famosissime I Dreamed I Saw St. Augustine, All Along the Watchtower, che Jimi Hendrix coverizzerà l’anno successivo. Bob Dylan, come già detto, scrisse All Along The Watchtower dopo il famoso incidente in moto del 29 luglio 1966, (quando riportò la frattura di una vertebra cervicale che lo costrinse per mesi in ospedale) e dopo un lungo periodo trascorso a leggere la Bibbia e ad approfondire le Sacre Scritture, in particolare il Libro di Isaia. E’ da quelle pagine, soprattutto dal capitolo 21 versetti 5 – 9, che Dylan ereditò l’immagine delle watchtower, le torri di guardia. La versione originale del brano era molto semplice ed essenziale, con la chitarra a rispondere ai versi invece che ad accompagnare, compito svolto da basso e batteria, mentre l’armonica lacera l’aria e riempie i suoni.
L’esordio del brano presenta subito i due protagonisti, un giullare e un ladro non meglio specificati, e sembra mettere davanti ai nostri occhi una Babilonia moderna, piena di gente pronta ad approfittare della minima occasione; il riferimento a Babilonia non è fuori luogo in quanto il testo della canzone presenta vari riferimenti biblici. Tali rimandi si rifanno essenzialmente, come scritto in apertura, al libro del profeta Isaia: è proprio Isaia a parlare di una “torre di guardia”, a preannunciare la distruzione di Babilonia e a citare l’inquietante presenza di due cavalieri (come saranno poi definiti, nel finale del pezzo, il ladro e il giullare).
Dunque si potrebbe ipotizzare in questi versi la volontà, tutta cristiana, di cercare una via d’uscita dalla confusione che regna nel mondo. Oppure, volendo tenere presente un altro piano di lettura, si potrebbe identificare il ladro e il giullare con lo stesso Dylan, e, di riflesso, anche con Hendrix: in chiave allegorica il brano sintetizzerebbe, quindi, il momento di crisi dell’artista che cerca una via d’uscita da una situazione, dove i “businnesmen” e i “plowmen” (contadini aratori), si arricchiscono col suo ingegno e la sua bravura cercando di controllare la sua vita, scavando dentro di lui. Dylan, dal canto suo, anni dopo rivelò di essere un fan della versione incisa da Hendrix e in un’intervista del 1995 dichiarò a proposito di Hendrix: “Hendrix riusciva a vedere delle cose all’interno delle canzoni e svilupparle. Aveva un talento immenso e riusciva a vedere cose che gli altri non vedevano. Dopo aver ascoltato la sua versione, posso dire che non é più mia, ma sua”
Proprio per restare tra sacro e profano, una versione del brano fa parte anche della serie TV The Young Pope..
The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest, dal testo visionario e quasi sermonico (ispirazione fra l’altro per la leggendaria band heavy metal inglese), restano in coerenza con la melodia dell’album, con un Dylan che appunto torna ad essere cantastorie e si immedesima in personaggi e contesti.
Un disco di storie, ballate, racconti e confessioni, che trova nelle liriche e nella voce di Dylan il proprio senso, la musica e gli strumenti sono solo un contorno, un disco che può fare da sottofondo ma necessita di entrare nelle parole dell’autore, di immergersi negli stati d’animo che evoca e vuole trasmettere. Ad onor del vero sono presenti anche brani più deboli e dimenticabili, che pesano sul giudizio globale dell’album ma che poco cambiano per le sorti di un personaggio come Bob Dylan che era già una star e diverrà leggenda.
L’album ottenne un gran successo, le recensioni furono positive nonostante qualche critica per il cambio di rotta stilistico, raggiunse la seconda posizione negli Stati Uniti ed il numero uno nella classifica inglese; il successo fu anche trainato dal fatto che John Wesley Harding segnava il ritorno sulle scene dell’artista dopo uno stop forzato dovuto all’incidente, e nonostante la scelta dell’artista di non effettuare una grossa campagna pubblicitaria l’album si guadagno il disco d’oro in pochissimo tempo, a dimostrazione di quanto Bob Dylan fosse amato (e lo è tuttora) da una sterminata schiera di fans in patria ed in Europa.
Un disco particolare, da non etichettare come i capolavori del cantautore americano ma sicuramente degno di attenzione