#TellMeRock, 28 febbraio 1983: la ‘guerra’ degli U2 tra religione, sociale e amor di patria

EDITORIALE – A Chicago, il 29 aprile 1987, Bono aveva voglia di giocare. Gli capitava spesso in tour, persino quando era sul palco. Un modo come un altro per allentare la tensione e anche per fare in modo che la gente non lo prendesse troppo sul serio. 

L’ultima cosa che voleva era essere considerato un profeta. Così si avvicinò al microfono e, prima di lanciarsi nell’ultima canzone che, ne era sicuro perché capitava così ovunque, sarebbe stata cantata in coro da tutto il pubblico anche dopo che gli U2 erano scesi dal palco, decise di giocarci un po’. E disse:  ‘Ci abbiamo messo 10 minuti a scriverla, 10 a registrarla, 10 a missarla e 10 a riascoltarla, ma non per questo si chiama 40”.

No, non era per questo. Era perché il testo era nato dopo che Bono aveva aperto a caso il Libro dei Salmi alla pagina del Salmo 40. Ma in primis egli stesso e poi The Edge e Larry Mullen non erano ancora sazi.

Volevano una canzone, anzi la canzone giusta per chiudere un album delicato e potente allo stesso tempo come War. Adam Clayton aveva già lasciato lo studio. Bono disse che voleva qualcosa con un feeling quasi religioso, non rock: ragione per cui The Edge si affrettò a spegnere la chitarra e il basso elettrico. Bono aprì il libro per un’ ispirazione e, come spesso accadeva quando si trattava di sacre scritture, arrivò al volo. Come un miracolo, come una preghiera. Amen.

Apro la storia di War, album pubblicato il 28 febbraio 1983 e lavoro di consacrazione per gli U2, con questo aneddoto su un pezzo cardine del disco: quella 40 cantata a squarciagola dal pubblico soprattutto come canzone finale del Joshua Tree tour 87.

War è il terzo album degli U2 ed è a tutti gli effetti il disco che sancisce ed etichetta la band di Dublino come gruppo impegnato sui temi sociali, religiosi e politici. Ma non solo, anche a livello musicale si tratta di uno dei lavori più riusciti e convincenti degli U2. C’è qualcosa di più ricercato negli arrangiamenti e nei testi sicuramente, ma a livello di strutturazione musicale, l’album non è molto dissimile dai due precedenti, Boy ed October. A spiccare sono sempre gli arpeggi della chitarra di The Edge e la potente voce di Bono.

Sebbene negli anni abbia guadagnato la nomea di album impegnato, in realtà solo quattro tracce su dieci sono a sfondo politico, ma sono quelle che, indubbiamente, creano l’essenza dell’album in sé e lo rendono immortale.

Su tutti spicca il brano Sunday Bloody Sunday. La storia è tristemente nota , ma non  è mai sbagliato raccontarla di nuovo. Le storie si raccontano fino a quando non diventano anacronistiche, ecco perché le trame di guerra o di morte raramente lo diventano. Per “domenica di sangue” si intendono due domeniche: quella del 21 novembre 1920 a Dublino, durante la guerra d’indipendenza irlandese che terminò nel 1921, e la domenica del 30 gennaio 1972.

Nel 1920, come rappresaglia all’uccisione da parte di Michael Collins di quindici agenti segreti inglesi, le forze armate si erano spostate in massa a Croke Park, dove avevano aperto il fuoco sulla folla che assisteva a una partita di calcio, uccidendo dodici persone e ferendone centinaia.

Nel 1972, a Derry, nell’Irlanda del Nord, il primo Battaglione del Reggimento paracadutisti britannico aprì il fuoco contro una folla di irlandesi che manifestavano pacificamente: ventisei  persone furono colpite, quattordici, sei delle quali giovanissime, morirono. Tutte erano disarmate, cinque di loro furono colpite alle spalle.

L’idea di scrivere una protest song in un album che aveva per titolo War, era perfetta. La musica e un’idea del testo vennero a The Edge, mentre Bono si trovava in luna di miele in Giamaica. Il resto della band si mostrò subito entusiasta, ma per qualche ragione non riuscivano a completare il testo. Non volevano che fosse un brano “militante”, Bono la introdurrà dal vivo dicendo:”This is not a rebel song”, quanto piuttosto un brano che parlava delle atrocità commesse contro gli innocenti di ogni fazione, di qualsiasi schieramento. Il leader degli U2 ricorda che venne fuori dal blocco creativo che lo aveva attanagliato, soprattutto grazie a sua moglie, che lo buttava giù dal letto ogni mattina dicendo: “Vai a finire Sunday Bloody Sunday”.

Ma c’è anche la mitica New Year’s Day, brano dominato basso di Adam Clayton e dalla tastiera di The Edge. Si tratta del primo vero successo del gruppo, riuscendo ad entrare nella top ten britannica e nella prestigiosa Billboard Hot 100 per la prima volta nell’intera carriera del gruppo.

Originariamente il brano doveva essere una canzone d’amore dedicata da Bono alla moglie Ali Hewson, ma successivamente fu modificata e ispirata dal movimento polacco Solidarność guidato da Lech Walesa.

In successione arrivano poi Seconds, sul tema della paranoia nucleare (tre anni dopo sarebbe successo il disastro di Cernobyl), e The Refugee, che tratta di una bambina in un campo profughi. Un disco che, tristemente, a 39 anni dalla sua pubblicazione, risulta tristemente attuale con la crisi ucraina che stiamo vivendo in questi giorni.

Il resto del disco prosegue sulla falsariga dei precedenti: spaccato di vita quotidiana (Surrender, Red Light), riferimenti biblici (Drowning Man, e la sopra citata 40), disagio giovanile (Like A Song) nonché la prima canzone d’amore del gruppo (Two Hearts Beat As One).

Un album che segna gli U2 come band irlandese in grado di smuovere generazioni e innalzare ideali in favore dell’ambiente, della società e contro le guerre e le discriminazioni di qualsiasi genere. E’ da qui che nasce l’epopea del “Bono salvatore del mondo” , in una cavalcata epica fatta di rock e contaminazioni punk.

Epica e storica anche la copertina dell’album. Il bambino sulla copertina è Peter Rowen, a 8 anni, fratello di Guggi, amico di Bono. Peter è anche presente sulle copertine di Three (1979), Boy (1980), The Best of 1980-1990 (1998) e Early Demos.

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