EDITORIALE – Una sequenza ordinata di rintocchi di campana che danno l’inizio a una ballata nostalgica e malinconica. Scoprii High Hopes ascoltando il live di Pulse e me ne innamorai subito. Tanto da mettere in dubbio persino il primato personale che nel mio archivio musicale aveva sempre tenuto l’assolo finale di Comfortably Numb.
Ed è proprio un verso di High Hopes, che dà il titolo al 14° album dei Pink Floyd, il contestato ma acclamato The Division Bell, pubblicato il 28 marzo del 1994.
Contestato dalla critica ma acclamato dal pubblico, è il disco del ritorno di Richard Wright al canto e alla composizione dopo 20 anni da The Dark Side of the Moon e dopo 15 anni della sua estromissione nel 1979 ai tempi del tour di The Wall.
Questo album segue a A Momentary Lapse of Reason uscito nel 1987 ed è il secondo senza Roger Waters, uscito nel dicembre 1985 dal gruppo. La campana della “divisione” nel titolo è quella della Camera dei Deputati inglesi la quale, quando suona, avvisa gli onorevoli inglesi a dividersi per procedere alle votazioni. Ma il suono che si sente in High Hopes non appartiene a quella campana.
Il disco nasce nei rinnovati Britannia Row Studios, dove David Gilmour invita Wright nel gennaio 1993 per vedere se fosse possibile scrivere musica insieme e dare vita ad un progetto. Arrivano anche Nick Mason e poi Guy Pratt, bassista e fidanzato della figlia di Wright, Gala.
L’alchimia si produce subito, e dai Britannia Row Studios tutto il gruppo, a cui si unisce il produttore Bob Ezrin e l’ingegnere Andy Jackson, si sposta sul battello-studio di Gilmour, Astoria, che galleggia sul Tamigi.
Con 65 brani più o meno abbozzati e registrati, il team lavora sodo per scartare, unire, affinare. Dopo qualche settimana c’è una lista di 27 brani, poi ridotti a 15 ed infine agli 11 che troviamo sul disco.
Un ruolo essenziale viene svolto dalla nuova moglie di Gilmour, Polly Samson, che lo aiuta a scrivere i testi e lo incoraggia nei momenti difficili. Ezrin, che non approva questa intromissione, alla fine la accetta perché vede che permette a Gilmour di restare lucido, di lavorare e suonare.
Vari musicisti, dopo la pausa estiva, raggiungono il gruppo, tra i quali il fedele Dick Parry, il musicista dietro l’assolo di sassofono in The Dark Side of the Moon. Tra settembre e dicembre 1993 l’album viene approvato per i mixaggi che vengono fatti tra Londra (Creek Recording Studio) e Chiswick (Metropolis Studios). Il master finale viene effettuato a Los Angeles nel Mastering Lab da Doug Sax e James Guthrie.
L’opener strumentale Cluster One, usata anche come introduzione durante i concerti del sontuoso tour che seguì all’uscita del disco (immortalato sul doppio CD Pulse) è una parentesi minimalista fatta di tastiera e chitarra, certamente godibile ma non memorabile come i leggendari assoli di Gilmour.
Si migliora con la ritmata e blueseggiante What Do You Want From Me, che leggenda vuole sia stata ispirata da un litigio tra il cantante/chitarrista e l’allora moglie Polly Samson, co-autrice, come suddetto, di gran parte dei testi presenti su The Division Bell.
Su Poles Apart, introdotta da un delicato arpeggio di chitarra che lentamente sfocia in una sofisticata ballata, appaiono due dediche, se così vogliamo definirle, sotto forma di strofe: la prima e la terza sono verosimilmente indirizzate al compianto Syd Barrett:
Did you know… it was all going to go so wrong for you / And did you see it was all going to be so right for me / Why did we tell you then / You were always the golden boy then / And that you’d never lose that light in your eyes. The rain fell slow, down on all the roofs of uncertainty / I thought of you and the years and all the sadness fell away from me
And did you know. I never thought that you’d lose that light in your eyes.
(Lo sapevi
che tutto ti sarebbe andato così male?
E avevi capito
che a me sarebbe andata così bene?
Perché ti avremmo detto altrimenti
che eri il ragazzo speciale a quei tempi
E che non avresti mai perso quella luce negli occhi)
La seconda invece, dal tono decisamente più duro, sembrerebbe rivolta verso Roger Waters :
Hey you, did you ever realize what you’d become / And did you see that it wasn’t only me you were running from / Did you know all the time but it never bothered you anyway / Leading the blind while I stared out the steel in your eyes. (Ehi tu, Hai mai capito quel che saresti diventato? E hai compreso che non erasolo da me che scappavi? Lo hai sempre saputo, ma comunque non ti importava. Conducevi il cieco mentre io fissavo l’acciaio dei tuoi occhi)
Chiude il tutto un assolo di chitarra come quelli a cui i Pink Floyd ci avevano abituati, e sembra che finalmente il gruppo riesca ad esprimersi genuinamente, senza costrizioni di sorta e con una ritrovata armonia.
La sensazione permane nel brano successivo, il capolavoro strumentale Marooned, vago richiamo al finale di Comfortably Numb guidato dai prestigiosi bending di Gilmour, a riprova del fatto che per emozionare l’ascoltatore, bisogna innanzitutto essere capaci di emozionarsi e mettere un bel pó di tecnica e istinto sulla propria stratocaster.
Si prosegue poi con A Great Day for Freedom: nel libretto campeggia infatti una pagina di giornale con il titolo in bella mostra. Si tratta di un articolo scritto subito dopo la caduta del muro di Berlino, ma in questo caso il muro da abbattere è anche quello dell’incomprensione e della mancanza di dialogo, in cui i più maligni vedono un’altra frecciata per Waters. Il brano rimane in linea con le sonorità tranquille dell’album, ma è da segnalare la grandezza dell’arrangiamento, che non lascia spazi vuoti.
A metà del disco arriva l’unica traccia che porta la firma di Richard Wright, che in questo frangente appare anche in veste di cantante, ovvero Wearing the Inside Out. Grande risalto è dato ai controcanti, che si contrappongono alla voce di Wright.
La successiva Take it Back, uscita anche come primo singolo, è stata fortemente criticata dalla stampa specialistica a causa del suo riff di chitarra, che ricorda lo stile di The Edge degli U2. A conti fatti, però, il brano funziona, malgrado la ripetitività del ritornello.
In Coming Back to Life ritorna invece il rapporto travagliato tra Gilmour e Polly Samson. In questo caso però, la voce del frontman si avvale del delay per cantare un pezzo fatto di sentimenti positivi, che innalza lo spirito ad ogni ascolto.
Keep Talking gioca nuovamente col riff di In the Flesh?, e ancora una volta il fulcro della questione sono i problemi comunicativi, come si evince dal ritornello. Non a caso, probabilmente, l’assolo è affidato alla talk box di Gilmour, e la voce sintetica di Stephen Hawking apre e chiude il brano.
Tornano le sonorità leggere nella ballata Lost for Words, momento tranquillo e riflessivo prima del vero pezzo da 90, la conclusiva e sopra citata High Hopes. Uscito come singolo insieme a Keep Talking, è il brano più intenso del lotto, grazie al suo lento incedere e al suono della “Division Bell” che ne scandisce il tempo. Coadiuvati dall’orchestra, i Pink Floyd tirano fuori dal cilindro uno dei brani meglio concepiti della loro lunga e ricca carriera.
Giunti alla conclusione di un’opera di questo calibro, bisogna trarre le dovute considerazioni. Ventisette anni fa The Division Bell è stato fortemente criticato da più fronti: i fan di Roger Waters non lo consideravano neppure un album dei Pink Floyd, Waters stesso lo ha sempre deprecato, mentre la critica musicale gli addossava la colpa di non essere un disco al pari dei precedenti.
La verità molto spesso sta nel mezzo, e se è ovvio che non si tratta di un album al livello di The Dark Side of the Moon o Wish You Were Here, non per forza significa che sia da buttare.
Dal canto suo, Gilmour ha sempre dichiarato che sebbene i Pink Floyd non avessero più molto da dire, continuavano a farlo nel migliore dei modi.
E in effetti, come dargli torto? Col passare degli anni, il disco è stato rivalutato e chi ha deciso di dargli una seconda possibilità ha potuto godere delle chicche inserite al suo interno. Nonostante le opinioni discordanti, insomma, va riconosciuto il valore di un album che pur non essendo un concept e pur essendo in una certa misura distante dallo stile che ha reso noti i Pink Floyd negli anni ’70, resta comunque un ottimo episodio all’interno della loro ampia e gloriosa