EDITORIALE – Uno dei migliori Bond al cinema, con Sean Connery e uscito nel 1967, si intitola Si vive solo due volte: tra le tante cose, azzecca il meraviglioso tema cantato da Nancy Sinatra e scritto da John Barry (utilizzato da Robbie Williams per Millennium, singolo del 1998, che gli ha fruttato una fortuna), e il surreale titolo. “Si vive solo due volte” si può utilizzare anche per definire America, il disco di debutto della omonima band.
Ma partiamo dall’inizio. Quasi come accade per i Genesis, Gerry Beckley, Dewey Bunnell e Dan Peek, si conoscono a scuola, alla London Central High School, e danno vita agli America come risultato della disgregazione di due band tra le quali erano suddivisi. Beckley, Bunnell e Peek però sono americani, figli di militari della US Air Force di stanza alla RAF South Ruislip nei pressi di Londra. Tutti e tre suonano le chitarre acustiche 6 & 12 corde e cantano, e hanno come punto di riferimento Crosby, Still & Nash. Gli America, così nominati per mettere in chiaro le origini geografiche, vengono notati in uno dei tanti club dove suonano e messi sotto contratto da Ian Samwell – musicista che scrisse per Cliff Richard, con i Drifters, Move It, e considerato da molti come il primo esempio di rock’n’roll britannico, siamo nel 1958 – e Jeff Dexter – dj del Middle Earth, uno dei locali più in voga della swinging London e a sua volta produttore.
Guadagnato un accordo discografico con Kinney Record Group Ltd. (che per questioni di anti-trust diventa WEA e in seguito la, famosa Warner), dopo un periodo di prove e di demo gli America entrano ai Trident Studios con Samwell e Dexter come produttori artistici e niente meno che Ken Scott, anch’egli in procinto di scalare gerarchie per diventare un produttore di primissimo piano, come tecnico del suono. Di Samwell è il consiglio ai ragazzi di focalizzarsi sulla loro naturale predisposizione acustica, perché l’intenzione primigenia era di realizzare un lavoro elettrico e stratificato sulla falsariga di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles. America prende così una piega totalmente diversa; protagonisti le chitarre acustiche, gli intrecci di corde arpeggiate o le pennate più ritmiche e irruenti, le voci soliste che si alternano con medesima bravura, e le armonie in tre parti che hanno poco o nulla da invidiare ai già citati CS&N.
Mitigate da una scrittura apparentemente semplice ma agli antipodi del banale, su America si alternano dolcissime lullaby come Children, l’oltremodo intimista e carezzevole Here, la melanconica Rainy Day, e Never Found the Time che pare giungere da lontano nel tempo e nello spazio, come l’eco del bivacco di cowboy. E la singolare Pigeon Song: spot per il solo Dewey Bunnell che ha l’aura delle più belle prove del Cat Stevens cantautorale.
All’opposto, ma in armonia, rappresentanti di un mondo e di un modo mai estremo, ci sono la spumeggiante Riverside, l’armonioso lucore di Three Roses, il toccante romanticismo in chiaro-scuro di Clarice, la camaleontica Monkey Jaw che tra sogno e incubo blandisce con inusitata soavità per poi graffiare con uno scarto imprevedibile, e viceversa.
Vista l’indiretta vicinanza alla vita militare e gli anni tumultuosi, un riferimento alla guerra in Vietnam non sorprende. Sandman inasprisce le dolcezze californiane fino a spingere il brano al confine con la psichedelia della baia (il Sandman dal quale i militari fuggono, «running from the man that goes by the name of the Sandman», è il sonno eterno).
C’è una sola zecca pop fatta per aggrapparsi ai tentacoli delle classifiche. I Need You, tra i Bee Gees non ancora in falsetto e febbricitanti del sabato sera e i Beatles più frivoli, suona un po’ troppo ricca di zuccheri aggiunti; ma da qua, dire che sia meno che gradevole è da sconsiderati.
America esce nel Regno Unito il 29 dicembre 1971 (benché circoli anche la data del 26, che era una domenica e di conseguenza, a negozi chiusi, una cosa poco probabile) ma non ha un grande impatto sulle classifiche. Fa bene in Olanda, dove Bunnell, Beckley e Peek si sono momentaneamente trasferiti per rodare la loro musica, ma il successo non arriva. Anche perché Warner Bros. non ha molta fiducia in I Need You (che pubblicato come secondo singolo l’anno seguente entrerà comunque nella Top 10 di Billboard) e manda nuovamente il trio in studio, questa volta ai Morgan Studios di Londra, per registrare una manciata di canzoni dalla quale trarre il singolo che si aspetta.
Quando le cose devono prendere una piega che lascia tracce nella storia, spesso succede qualcosa sul filo di lana che determina il successo oppure la débâcle: gli America registrano quattro brani; l’ultimo intitolato Desert Song, farina del sacco di Bunnell, con una certa ritrosia perché considerato mediocre. Se non fosse per l’insistenza di Ian Samwell che produce e suggerisce anche di cambiare il titolo, A Horse With No Name non avrebbe visto mai la luce e gli America non sarebbero la leggenda che sono diventati. A questo punto Warner sente di avere ciò che cercava e mette in vendita il primo singolo degli America. Probabilmente per effetto della sua linearità e di una immediatezza esemplari, la canzone che si può considerare il manifesto degli America non è mai entrata nel raggio di azione dei circoli bene della psichedelia. Eppure canta parole di rara forza surreale e visionarietà. Non per nulla Bunnell ha dichiarato di essere stato “sotto l’effetto” dei ricordi legati alla soleggiata California almeno quanto di due lavori di Salvator Dalì e del non meno esagerato, fantasticamente parlando, disegnatore olandese M. C. Escher. «Nella prima parte del viaggio / stavo osservando tutta la vita / C’erano piante e uccelli, e rocce e cose / C’erano sabbia e colline e spirali / (…) / Nel deserto puoi ricordare il tuo nome / Perché non c’è nessuno che può farti soffrire». E la strofa indimenticabile che canta: «Dopo nove giorni ho lasciato libero il cavallo / Perché il deserto era diventato un mare / C’erano piante e uccelli, e rocce e cose / C’erano sabbia e colline e spirali / L’oceano è un deserto, con la vita sotterranea / E un perfetto camuffamento sopra / Sotto le città giace un cuore fatto di terra / Ma gli umani non gli danno amore».
A dimostrazione di un testo ambiguo, e doppiamente pericoloso per la micidiale facilità con cui la melodia fa presa, molte stazioni radio americane si rifiutarono di trasmettere il brano perché in quel cavallo senza nome che attraversava il deserto, senz’acqua, vedevano il fantasma dell’eroina. Persino Randy Newman si scagliò contro il brano, dichiarando, forse con più sarcasmo che moralismo, che quelle di A Horse with No Name sembravano le parole di «un bambino che pensava di avere preso dell’acido». Ciononostante il primo singolo degli America, pubblicato il 12 gennaio 1972, e in fin dei conti una canzone dall’afflato fortemente ambientalista, raggiunse il n° 1 in classifica spodestando Heart of Gold di Neil Young. Non restava che ristampare il long playing – ma in USA in non era ancora stato pressato – e aspettare che il 45 giri tirasse la volata all’album. Cosa che avvenne puntualmente: nella sua seconda vita – you live only twice – America restò per cinque settimane in testa alla classifica di vendita del paese di Beckley, Bunnell e Peek, divenendo Disco di Platino.
America, e gli America prima che intraprendano la strada più dorata del pop, nella terra sconnessa del rock classico sono un caso raro, se non proprio unico. Il disco riesce a dosare con equilibrio e in modo armonioso e in gran parte sincero, elementi difficili da amalgamare. La qualità e la dimensione del lato acustico, l’afflato folk-rock, la rinuncia al country più appiccicoso e mefiticamente retorico, il songwriter/songwriting di rango indifferentemente made in USA o UK che evoca totem come Neil Young o Cat Stevens dalla cui lunga ombra però gli America non si fanno inghiottire, perfino delicati intarsi acustici strumentali che profumano di progressive rock, tutto questo per il fatto di essere yankee solidamente trapiantati nella vecchia e brumosa Inghilterra meta di gioia e rimpianti (sul cavallo senza nome «Faceva stare bene essere lontani dalla pioggia»), fanno del disco di debutto di Gerry Beckley, Dewey Bunnell e Dan Peek un lavoro sul quale mezzo secolo di distanza (pubblicato nel 1971 e 1972) non ha depositato il più leggero velo di polvere.
In tempi di tecnologia spinta che domina anche il mondo della registrazione, in moltissimi casi per sopperire alla mancanza di doti artistiche, America dimostra che prima di tutto vengono (venivano?) ancora l’uomo, la carne, i legni, le pelli: le chitarre e le voci dei tre ragazzi, l’artiglieria leggera di Ray Cooper, quella pesante di Dave Atwood in soli quattro brani (in uno la batteria è di Kim Haworth), e David Lindley, che in un altro paio abbellisce con steel guitar o l’elettrica, sono il poco che serve. Nel gergo attuale, però, tanta roba