EDITORIALE – Incredibile, sotto ogni profilo, il poker d’assi giocato dai Metallica tra il 1983 e il 1988.
Dal selvaggio esordio di Kill‘Em All (1983), che definì e impose gli standard del thrash con inni quali Hit The Lights, The Four Horsemen e Seek and Destroy, al più compiuto Ride The Lightning del 1984 (quello della splendida ballata Fade To Black), fino a Master Of Puppets (1986) e And Justice For All (1988), i lavori che, subito dopo il passaggio alla major Elektra dall’etichetta di genere Megaforce, certificarono la maturità del quartetto californiano e il suo pieno diritto a entrare a testa alta nel pantheon dell’hard & heavy.
E a rimanerci per sempre, anche se non tutti i fan della prima ora hanno apprezzato fino in fondo l’evoluzione stilistica che, dagli anni 90 in poi, li ha trasformati da idoli degli “headbanger” ( i veri fan “malati” di metal), in “normali” stelle del rock.
Master Of Puppets, uscì il 3 marzo del 1986 ed è l’ultimo album realizzato con il bassista Cliff Burton, che da lì a poco avrebbe tristemente perso la vita in un incidente mentre viaggiava con il tour bus della band. Durante uno spostamento nel tour europeo in supporto di “Master Of Puppets” l’autista del bus dei Metallica perde il controllo del mezzo nei pressi della cittadina svedese di Ljungby, causando il rovesciamento del grosso veicolo. Nel drammatico incidente perde la vita il bassista Cliff Burton, rimasto schiacciato dall’enorme peso del bus. Aveva solo 24 anni. Alla Solnahallen Arena di Stoccolma, la sera prima, si era tenuta proprio l’ultima esibizione del bassista.
L’album coglie i Metallica in un momento magico e irripetibile: quello dell’acquisita e piena consapevolezza delle proprie opportunità tecniche/espressive, esaltata dalla percezione di essere in grado di diventare qualcosa di unico.
Lo dimostrano otto brani intrisi di rabbiosa angoscia, vari testi sono legati al concetto di manipolazione dove le influenze storiche della New Wave of British Metal (gli Iron Maiden su tutti) e di certo hardcore americano (dai Suicidal Tendencies ai Misfits), convivono con architetture strumentali tutt’altro che elementari, nelle quali non è assurdo riscontrare un tentato approccio al progressive.
Basti pensare che tutti i pezzi durano più di cinque minuti e addirittura tre di questi, tra cui l’ossessivo Master Of Puppets, l’ancora più devastante Disposable Heroes e il cupo e limaccioso strumentale capolavoro dal titolo Orion, superano gli otto minuti.
I detrattori così si ritrovarono a dover accertare l’evidenza: anche il thrash può generare musica grandiosa ma soprattutto immortale, a dispetto delle croci presenti su una copertina tanto iconica quanto inquietante.
Ed è quando partono le note dell’opening track Battery che si capisce davvero il motivo dell’ingombrante nomea di capolavoro generazionale. Si può già immaginare l’addestrata mano di Hammett che, in preda ad un raptus sconosciuto, fra una strofa e l’altra, mentre Hetfield sputa fuori le sue sentenze di polvere e sangue, mentre Ulrich fa implodere la doppia cassa e un giovanissimo Burton – ignaro della crudeltà che gli riserverà il destino da qui a breve – tartassa il suo basso, si muove frenetica sui box di una tastiera infuocata, per cominciare un assolo senza tempo né età, dove lo spazio si distorce, violentato e privato della sua naturale cognizione.
E’ un maledetto giocoforza. E’ uno stupidissimo rapporto fra potente, visto come un burattinaio, e un sottomesso, che si rassegna al suo destino, vomitando acido sul mondo e tutto quanto ne concerne, perché nulla lo può ritrarre dalla condizione in cui versa. Ma è anche una dolce ballata, nella quale il calpestato si apre, come uno scrigno difettoso, al risuonare del morbido assolo di Hetfield, cercando comprensione ed appoggio. Mera illusione: con un rumoroso tonfo, un altro assolo, crudo e velocissimo, ne stronca qualsivoglia sentimentalismo sul nascere, per annegare nella sua stessa, retorica amarezza, in una corsa mai iniziata, rimpiangendo la debolezza dell’aiuto richiesto (“Laughter, laughter / Laughing at my cries / Fix me”). Ed è solo alla fine, quando il trionfo si completa in maniera irreversibile, che si avverte il potere infinito del burattinaio: una risata grassa, beffarda, sardonica, priva di gioia e profondità, che si spegne sul fondo con un retrogusto amaro. In tre parole, “Master Of Puppets”: un capolavoro imprescindibile del metal.
Si ha quasi timore a rompere il perfetto meccanismo creato dal binomio d’apertura, con il riff, vagamente Far West, che dà il via a The Thing That Should Not Be, composizione dinamitarda in bilico fra attacchi thrash, inserimenti di più classico heavy metal (ecco da dove viene la pluripremiata Enter Sandman…), arpeggi cupi e rimbombanti, con un assolo sferragliante, veloce e lacerante, dalle pesanti influenze industrial.
L’attenzione viene focalizzata sulla successiva Welcome Home (Sanitarium), una sorta di ballad dalla struttura semicircolare, dove il basso di Burton è liberissimo di spaziare fra le scale cromatiche – da ascoltare l’ennesima performance solitaria –, mentre la voce cavernosa di Hetfield tuona, di riff in riff, le (dis)avventure di un soldato al ritorno dalla guerra (più che evidenti gli strascichi polemici post-Vietnam).
Ma tutta la reale potenza sonora dell’album si concentra in Disposable Heroes, una vera e propria carabina dalla violenza eccezionale, capace di essere ruvida ed assassina per oltre otto minuti, grazie ad un Lars Ulrich che, con un ritmo schizofrenico, supporta alla perfezione quello che è l’infernale lavoro delle chitarre, velocissime e sempre in movimento, sia nei riff, sporchi e dissonanti, che negli assoli, acuti ed estremamente tecnici.
Il solo vero passo falso di Master Of Puppets, (se di passo falso si può parlare), è dato da Leper Messiah, pesantissima mazzata di impacciato heavy metal, spesso ripetitivo, che strizza l’occhio agli Anthrax, senza trovare quella freschezza compositiva che si era finora registrata in tutti i pezzi dell’opera. In poche parole: poche idee, troppo riciclo.
Ma che questo sia tecnicamente un capolavoro, non viene messo in discussione nemmeno per un momento: il cervello si perde nei reconditi meandri dello spazio, ritornato integro e proiettato in una dimensione parallela.
Ecco che avviene la magia di Orion, una lunghissima strumentale, uno dei tanti marchi di fabbrica della band, probabilmente il migliore brano dell’album, dominata in lungo e in largo dall’enorme genio creativo di Cliff Burton, capace di prendere il comando del timone per poi farlo veleggiare in mezzo a tempeste sonore senza il benché minimo rischio di sbandamento. Ogni suo riff entra di fatto nella leggenda: è solo lui che riesce a sostituire, senza danneggiare l’impalcatura che sorregge la canzone, gli accordi di hard’n’heavy con un blues rock ammaliante ed ipnotizzante, che si distorce infuocato prima in un assolo, poi in una sparata thrash metal da far impallidire qualsiasi complesso con pretese distruttive.
Ed arriva l’epitaffio finale, Damage, Inc.: l’incipit vagamente new age si trasforma, come nel migliore (o peggiore?) incubo, in una sfuriata thrash metal dalle spiccate influenze slayeriane, agile e cacofonica, anche nell’ingombrante assolo – marca Hammett – che lacera fragorosamente i timpani dell’ascoltatore. E tutto si chiude a spirale in un silenzio che vale molto più di mille parole.
Il resto, purtroppo, è anch’esso storia. Come scritto in apertura, il 27 settembre 1986, in Svezia, poco tempo dopo la release di Master Of Puppets, il ventiquattrenne Burton perse la vita in un orrendo incidente stradale, schiacciato sotto il pullman che i Metallica usavano per spostarsi nel paese scandinavo.
Tracce
Battery – 5:12 (James Hetfield, Lars Ulrich)
Master of Puppets – 8:35 (James Hetfield, Lars Ulrich, Cliff Burton, Kirk Hammett)
The Thing That Should Not Be – 6:36 (James Hetfield, Lars Ulrich, Kirk Hammett)
Welcome Home (Sanitarium) – 6:27 (James Hetfield, Lars Ulrich, Kirk Hammett)
Disposable Heroes – 8:16 (James Hetfield, Lars Ulrich, Kirk Hammett)
Leper Messiah – 5:40 (James Hetfield, Lars Ulrich)
Orion – 8:27 (James Hetfield, Lars Ulrich, Cliff Burton)
Damage, Inc. – 5:32 (James Hetfield, Lars Ulrich, Cliff Burton, Kirk Hammett)