EDITORIALE – Quando Springsteen si presentò all’amico e chitarrista Steve Van Zandt con una manciata di canzoni acustiche e dai temi scuri, li considerava ancora come provini da sottoporre alla band.
Fu lo stesso Steve a suggerirgli l’idea, all’epoca assurda, di registrare invece le canzoni in assoluta solitudine, anche di strumenti, per far risaltare ancora di più l’intimismo, lo splendore e la magnificenza delle canzoni.
Il Boss prima lo guardò con stupore, poi tornò a casa, ci pensò su e capì che l’amico Steve aveva ragione. Fu così che nacque Nebraska, pubblicato il 30 settembre 1982 e capolavoro “noir” di Springsteen.
La canzone omonima che apre l’album, invece, nacque per raccontare la storia di Charles Starkweather, (in prima battuta il Boss l’aveva intitolata proprio Starkweather), un diciannovenne che tra la fine del 1957 e l’inizio del 1958, con la sua ragazza Caril Ann Fugate di anni quattordici, aveva ucciso undici persone senza ragione.
E quando il giudice gli chiese che senso avesse quello che aveva fatto, lui aveva risposto proprio come riportato da Bruce Springsteen nel brano: “Signore, c’è così poco senso in questo mondo…”.
Cominciò a uccidere un benzinaio a Lincoln, Nebraska, il 1°dicembre 1957, poi si spinse attraverso le badlands del Wyoming. Al film Budlands, di Terrence Malick con Martin Sheen e Sissy Spacek, Bruce si ispirò per il primo verso.
Forse per ragioni di metrica, nel brano muoiono dieci persone innocenti, in realtà, come suddetto, furono undici. Come scrive il compianto maestro Massimo Cotto, “almeno una, nella finzione, è riuscita a sopravvivere”.
Con la pubblicazione del doppio The River, Bruce Springsteen viene consacrato come vera e propria icona nel rutilante mondo del rock ed il mastodontico susseguente tour mondiale è foriero di successi ovunque per lui e la E Street Band.
Il Boss è forse stordito da tanto clamore ed ha improvvisamente un impellente bisogno di ritrovarsi e di rimanere lontano dalle luci della ribalta. Questa ricerca di intimità e solitudine è propedeutica ad un irrefrenabile desiderio di profonda riflessione esistenziale che si riverbera dirompente nell’assoluto minimalismo dell’album Nebraska
Dieci le canzoni che compongono il disco in cui l’artista dischiude il proprio animo esternando i sentimenti e i disagi interiori, veicolandoli attraverso liriche intense che parlano di frammenti di vita quotidiana e reminiscenze personali. L’atmosfera è malinconica, umbratile, intrisa di folk fino al midollo con marcati riferimenti a Arlo Guthrie, Bob Dylan e Johnny Cash.
Dopo l’omonimo brano di apertura, si prosegue con lo splendido singolo Atlantic City che sarà seguito da un intrigante videoclip in bianco e nero.
La struttura dell’album prosegue praticamente sullo stesso canovaccio virando su episodi più movimentati con il rock’n’roll di Johnny 99 e Open All Night, mentre una maggior cupezza viene raggiunta nell’ossessivo e rarefatto incedere di State Trooper.
I momenti migliori sono quelli più intimisti nei quali l’autore riporta alla mente episodi di vita legati all’infanzia, e li troviamo nella struggente Mansion on the Hill, nella sognante Used Cars e nell’emozionante My Father’s House dove si riaprono le vecchie ferite scaturite dalla conflittualità del rapporto padre/figlio.
Degna di menzione anche Highway Patrolman, racconto tragico della storia del poliziotto Joe Roberts: diviso tra il senso del dovere e la famiglia deciderà di agevolare la fuga di suo fratello, il delinquente Franky. L’argomento è stato mirabilmente riproposto nel film del 1991 The Indian Runner del debuttante regista Sean Penn con una trama completamente ispirata proprio alle liriche di Highway Patrolman
Nebraska è un’opera magnifica, compatta, intrisa di pathos che in modo disarmante mette a nudo le fragilità umane. Un disco da ascoltare quando si decide di stare da soli con se stessi e i propri pensieri, cercando una dimensione quasi spirituale lontano dal caos quotidiano.