#TellMeRock, 31 marzo 1976: Presence, il lavoro ingiustamente più sottovalutato dei Led Zeppelin

EDITORIALE – Ierì abbiamo celebrato i cinquantadue anni dell’album forse più controverso dei Led Zeppelin. Oggi, invece, provo a raccontarvi quello che invece è stato il disco probabilmente più sottovalutato della band inglese.

Per recensire Presence, pubblicato il 31 marzo del 1976, è doveroso partire dalla straordinaria copertina. L’oggetto del culto della spensierata famigliola seduta attorno un tavolo viene definito appunto “the object”: uno strano monolito legato all’esoterismo, vero chiodo fisso di Jimmy Page, ed ispirato al Kubrickiano 2001: Odissea nello spazio. 

The object è diventato un vero è proprio simbolo di culto dei fans dei Led Zeppelin quasi quanto il dirigibile, identificato come il marchio di fabbrica della band di Page, al punto da costringere la Swan Song a produrne un numero limitato di copie da vendere ai collezionisti.

Presence è l’album più essenziale del Dirigibile, un lavoro che forse soffre dei drammatici avvenimenti che gravitano sulla band tra la fine del 1975 e l’inizio del 1976: uno spaventoso incidente coinvolge la famiglia Plant e il cantante ne esce così malconcio da essere costretto per parecchi mesi su una sedia a rotelle. Jimmy Page è ormai totalmente dipendente dall’eroina, e questo sicuramente non agevolerà il mitico quartetto in sala d’incisione, e come se non bastasse i quattro sono perseguitati dal fisco e ciò li costringe a continui esili. Annullate le date di Oakland e Pasadena e dopo aver rinunciato per ovvie ragioni ad organizzare ulteriori concerti, i quattro decidono di colmare quel vuoto lavorando a del nuovo materiale. Il massacrante lavoro in studio (anche diciotto ore al giorno) terminò alla vigilia del Giorno del Ringraziamento, ciò per un attimo convinse Page ad intitolare l’album Thanksgiving, ma poi si optò per Presence.

Album concepito sotto la pressione “di una grande ansia, di una forte emotività”, a detta del chitarrista Jimmy Page, il settimo sigillo dei Led Zeppellin, composto da sole sette canzoni, va subito al sodo, senza le lungaggini del precedente “Physical Graffiti. A venir meno però è l’innovazione, peculiarità che aveva sempre contraddistinto la mitica band, che fino ad allora era sempre riuscita a rinnovare il rock partendo dalle sue radici: questo è forse l’album più “classico” di Page e soci, un omaggio alla musica che avevano amato sino ad allora.

L’album meno prezioso (secondo molte critiche) della band si apre con una delle migliori canzoni di tutta la produzione zeppeliniana: Achilles Last Stand. Un pezzo meraviglioso, quasi da pelle d’oca, una di quelle canzoni che non toglieresti mai dal piatto nonostante la sua durata (si va oltre i dieci minuti). Contiene “uno dei migliori assoli di tutta la mia carriera”, secondo Page, una cavalcata epica in cui si capisce come mai i Led Zeppelin furono considerati un po’ come un miracolo: quattro musicisti senza alcuna lacuna tecnica, ognuno al proprio rispettivo strumento considerato il migliore sulla piazza. A proposito dell’assolo, sentite la cavalcata in batteria d’accompagnamento di Bonham.

In For Your Life la base ritmica di Jones e Bonzo è come al solito impeccabile, e il basso è volutamente registrato a volume abbastanza alto, un po’ per mettere in mostra le doti tecniche di John Paul Jones.

Royal Orleans, da molti considerato un po’ come un riempitivo, è in realtà un delizioso rock’n’roll in cui, nella parte centrale, il batterista esprime le celebri qualità. Inoltre questo è l’unico brano firmato da tutti i componenti del gruppo; il resto è tutta opera del binomio PagePlant.

Un riffone suanato con una Les Paul carica di effetti è il preludio di un altro classico del Dirigibile: Nobody’s Fault But Mine. La canzone, che a mio avviso soffre un po’ delle cattive condizioni di salute di Plant (in sala d’incisione era ancora tutto ingessato) è un ennesimo “tributo” al limite del plagio della band ai grandi maestri del blues, in questo caso a Blind Willie Johnson e alla sua “Nobody’s Fault But Mine”del 1927. Bellissima e coinvolgente anche l’ultima versione live del brano eseguita nella reunion alla O2 Arena di Londra nel giugno del 2007

Nella poco convincente Candy Store Rock risalta all’orecchio un divertente basso rockabilly, mentre in Hots On For Nowhere il ritornello strizza un po’ l’occhio al pop. In questa parte finale dell’album Jimmy Page sembra voler dare lezioni di chitarra con degli assoli sporchi e taglienti, ma che forse non hanno l’incisività e la freschezza dei primi album.

Questo controverso lavoro dei Led Zeppelin si chiude con Tea For One. Se in precedenza la band ci aveva abituato al ripescaggio di classici blues, non eravamo ancora preparati all’autoplagio! Infatti, questa seppur pregevole incisione di nove minuti e ventisette, è praticamente un copia e incolla della splendida “Since I’ve Been Loving You” contenuta nel loro terzo album. Se, in quanto a base ritmica, i due pezzi si somigliano solo a livello di struttura, l’assolo centrale e l’arpeggio nella parte finale sono praticamente identici, eccezion fatta per qualche nota. A differenza del pezzo del 1970, qui però vengono a mancare quei meravigliosi acuti di Plant che ci facevano rabbrividire ogni volta che ascoltavamo quel pezzo. Posso dire con assoluta certezza che Tea For One rappresenta la vera essenza del Jimmy Page chitarrista.

Una band stanca e triste per ovvie ragioni. Mancanza di idee e di ispirazione che trovano il loro culmine nella citata Tea For One e un declino forse inesorabile, tranne qualche picco in In Through The Out Door.

Beh, se ogni band nella propria fase di declino incidesse un album come “Presence”, si potrebbe affermare che non esistono band di pessima qualità nel panorama musicale, anzi credo che qualsiasi artista farebbe un patto col diavolo per avere in catalogo un album del genere, ma onestamente  mi sembra troppo poco per una band monumentale come i Led Zeppelin. Un gruppo di musicisti che prese tutte le convinzioni in ambito rock e le smentì e le rivoltò come un calzino. Un gruppo mastodontico che è stato e sarà sempre una tappa fondamentale per chiunque voglia approcciarsi alla musica sia come semplice ascoltatore sia come esecutore.

Non è il loro canto del cigno, ma una caduta non del tutto giustificata dagli spiacevoli avvenimenti di quel primo lustro degli anni Settanta. 

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