EDITORIALE – Il rock che si contamina all’Opera, con la musica classica e le sua sonorità.
E’ un’impresa titanica, se messa sul piatto così, in modo istintivo e netto, ma la sperimentazione, nell’A.D. 1975, era di casa. Una sfida pesante e “pensante” che già nel 1971 il gruppo prog rock italiano dei New Trolls aveva accettato, accogliendo con favore la proposta del musicista e compositore Luis Enríquez Bacalov, di organizzare un “Concerto Grosso” in cui Rock e musica classica si fondessero in un’unica rassegna “barocca”.
Quattro anni dopo, a Kensington, zona ovest di Londra, il cantante e leader dei Queen, Freddie Mercury, è alla ricerca di qualcosa che faccia uscire dai canoni tradizionali la sua già affermata band, cercando un sound che possa rimanere sempre sul tema rock, ma che creasse anche uno stravolgimento essenziale della tradizionale ritmica.
“Niente sintetizzatori” era stato il comandamento nei primi due dischi, come saggiamente e coraggiosamente evidenziato nelle relative copertine. Freddie Mercury così pensó all’orchestrazione con la chitarra, all’opera (suo amore segreto) e alla possibilità di unire i due mondi. Il risultato fu Bohemian Rhapsody, incredibile esperimento strutturato in cinque parti diverse (un’intro corale a cappella, una parte di ballata che termina con un assolo di chitarra, un passaggio d’opera, una sezione d’hard rock e un outro), dove, in alcune parti, le voci dei Queen si sovrappongono fino a centottanta volte.
Mercury è un grande appassionato dell’opera classica, e l’intuizione gli arriva nei primi mesi del 1975, quando convince se stesso e i suoi soci, Brian May su tutti, che da oggi in poi i Queen, porteranno i suoi fan non più a dei semplici concerti, ma all’Opera. Nasce così l’idea dell’album A night At the Opera, pubblicato poi il 21 novembre dello stesso anno.
Non sono in realtà pregiudizi quelli che vengono da sempre tirati in ballo a proposito dei Queen: come negare che la band in alcuni lavori appare una via di mezzo tra il melodrammatico e l’eccessivo? Però altro dato difficilissimo da confutare è quello che vede il quartetto abilissimo nel tradurre il “troppo” in arte, agitando freneticamente nello shaker rock anche duro e pop, glam e dance, rimembranze folk e deviazioni sinfoniche: il tutto caratterizzato da arditi intrecci canori incentrati sulla duttile e carismatica voce di quel sopra citato Freddie Mercury che è umanamente reputato uno dei più grandi performer della storia. Ma in questo quarto album, il più amato dai fan e il primo a ottenere consensi di vendite davvero notevoli, il gruppo, che aveva come altro fulcro il chitarrista Brian May, da prova del suo ispirato eclettismo compositivo e interpretativo, giocando spesso con il kitsch ma riuscendo a non farsene sopraffare.
E’un banco di prova non da poco dunque, ma serve un singolo, serve un’apripista per questa nuova sperimentazione.
Secondo Lesley-Ann Jones (uno dei biografi dei Queen), Mercury cercava qualcosa di enigmatico e controverso per dichiarare al mondo la propria omosessualità.
Così, utilizzando la frenesia dell’Opera e la poliedricità del rock, crea una vera e propria “rapsodia”, cioè una particolare struttura musicale che rappresenta proprio la non convenzionalità, e quale tema migliore per dare al mondo e al pubblico qualcosa di bello e trasgressivo allo stesso tempo?
Il produttore del brano, Roy Thomas Baker, raccontò come Mercury, dopo avergli suonato la sezione iniziale di ballata al pianoforte, si fermò e disse: “E questa è la parte dove arriva l’opera!”.
Lo stesso giorno, i due andarono a cena insieme, e fu in quest’occasione che il cantante chiese seriamente se avesse potuto scrivere un brano dalla struttura diversa dal solito. Le registrazioni di Bohemian Rhapsody iniziarono il 24 agosto 1975 presso il Rockfield Studio 1, vicino Monmouth in Galles, dopo tre settimane di prova a Herefordshire. Il singolo uscì poi il 31 ottobre proprio di quarantanove anni fa.
Le sessioni richiesero sei settimane di lavoro, ma alla fine il risultato fu assai soddisfacente per tutti, dal momento che il brano fu curato nei minimi dettagli (d’altronde l’album A Night at the Opera risultò tra i più costosi di sempre nella storia della musica).
In alcune parti, come già accennato, le voci dei Queen furono sovraregistrate diverse volte, pare addirittura per un totale di circa 180 parti vocali, cosa davvero incredibile per quei tempi; non disponendo gli stessi studi di nastri capaci di contenere tutte le tracce necessarie per l’incisione del brano, si fu costretti a sperimentare un nuovo tipo di supporto, in cui si dovettero tagliare e incollare manualmente più sezioni, appunto, di nastro.
Il brano è celebre per la sua particolare struttura musicale, composta da cinque diverse parti principali: un’introduzione corale cantata a cappella, un segmento in stile ballata che termina con un assolo di chitarra, un passaggio d’opera, una sezione di hard rock e un altro segmento in stile ballata che conclude su una sezione solo piano e chitarra. La sua struttura è considerata, insieme a Innuendo, un punto di svolta nella sperimentazione iniziata da Freddie Mercury già con brani come The March of the Black Queen.
Unico problema, nella successiva pubblicazione, fu la sua durata: era impensabile che le radio dell’epoca potessero trasmettere un brano di circa sei minuti. La svolta si ebbe quando Kenny Everett, un DJ amico di Mercury, riuscì a farsi dare una copia del brano, sotto la promessa di non trasmetterlo via radio. In realtà Mercury sapeva bene che il DJ non avrebbe tenuto fede alle promesse e cercando proprio di fare pubblicità al brano glielo diede. Everett arrivó a trasmetterlo addirittura quattordici volte al giorno, scatenando l’isteria degli ascoltatori che presero d’assalto i centralini della radio chiedendo dove fosse possibile comprare quella meraviglia, visto che i negozi non ne sapevano niente.
I Queen ripeteranno l’operazione con Somebody to Love, un grande brano in stile gospel che si ispirava ad Aretha Franklin e che lo stesso Everett impose ai gusti del pubblico prima ancora della sua uscita.
Come già detto, secondo alcune interpretazioni, anche accreditate e attendibili, Mercury inserì nel testo alcuni chiari riferimenti alla sua omosessualità. Possibile, perché alcuni passaggi sembrerebbero confermare senza ombra di dubbio questa tesi.
Il successo del brano fu comunque tale che l’etichetta discografica fu “costretta” a pubblicare il singolo, uscito il 31 ottobre 1975, il quale venne certificato disco di platino e rimase per nove settimane al primo posto della classifica britannica.
Il resto è storia di un brano immortale per complessità, genio e duttilità vocale e musicale, arrivato al cuore anche dei giovanissimi grazie al film uscito lo scorso anno proprio dal titolo “Bohemian Rhapsody”