#TellMeRock, 4 Agosto 1967: la psichedelia di ‘The Piper at the Gates of Dawn’ e l’esordio dei Pink Floyd

EDITORIALE – Il primo singolo del complesso più chiacchierato della Londra di inizio 1967, Arnold Layne, esce in marzo, dribbla la censura della BBC e scala le classifiche fino a un rispettabile ventesimo posto.

Può esserne soddisfatta la EMI, che ha ingaggiato questi sconosciuti Pink Floyd per una cifra considerevole di cinquemila sterline e che però li ha dirottati sulla consociata Columbia. La scelta per il debutto di due canzoncine graziosissime, ma non granchè rappresentative di quanto i ragazzi sanno inventarsi su un palco, commercialmente ha pagato.

Arnold Layne, scritta da Syd Barrett allora leader del gruppo, è incentrato su un tema inusuale, ovvero la storia di un travestito che si aggirava per Cambridge rubando indumenti femminili. Secondo quanto raccontato da Roger Waters, “Arnold Layne” era un personaggio reale: «Mia madre e quella di Syd tenevano a pensione delle studentesse perché lì vicino c’era un collegio femminile, e c’erano perennemente mutandine e reggiseni stesi ad asciugare fuori dalla finestra… e “Arnold” o chiunque fosse, li rubava dalla corda del bucato».

Pink Floyd 1967

E’un sound tipicamente da fine anni ‘60, ribelle, melodico e che in sé ha già l’innovazione di una base che richiama alla nascita di qualcosa di diverso, nonostante già dai primi passaggi nelle radio inglesi il brano venne preso poco seriamente, risultando quantomeno improbabile, anche considerando il contesto storico in cui ci si trovava, vista la storia “surreale” narrata nella canzone.

Arnold Layne non è mai stato pubblicato all’interno di un album in studio, ma è stato incluso per la prima volta nella raccolta Relics (1971), in seguito è stato incluso anche nelle raccolte Masters of Rock (1974), Works (1983), Echoes: The Best of Pink Floyd (2001) e Cre/ation – The Early Years 1967-1972 (2016). È stato recentemente incluso nella scaletta di alcune date del tour solista di David Gilmour del 2006, ed è stato pubblicato come singolo live il 26 dicembre 2006 in due versioni: la prima cantata da David Bowie, la seconda da Richard Wright, tastierista dei Pink Floyd, presenti come ospiti speciali.

Va fatta comunque una premessa: se si è abituati al sound Floydiano dell’epoca Gilmour della metà degli anni ’70, The Piper At The Gates Of Dawn, uscito il 4 agosto del 1967, è un album che difficilmente attribuirete ai Pink Floyd, soprattutto dopo aver ascoltato la suddetta Arnold Layne.

Ancora meno rappresentativa è See Emily Play, scanzonato beat appena venato di potabile bizzaria che in maggio è numero sei, e però il retro e The Scarecrow, tono favolistico, umori psichedelici e la sensazione, quando la si ascolta, che siano sbarcati i marziani.

See Emily Play parla di una ragazza che Barrett stesso ha rivelato di aver visto in una foresta mentre era sotto l’effetto di droghe allucinogene, effetto ricreato dall’atmosfera psichedelica della musica e dal testo al limite del non-sense. La ragazza, secondo quanto scritto da Nicholas Schaffner nel suo libro A Saucerful of Secrets: The Pink Floyd Odyssey, sarebbe in realtà l’artista Emily Young, figlia del barone Wayland Hilton Young, soprannominata “psychedelic schoolgirl” (studentessa psichedelica).

See Emily Play è rimasta inedita su LP fino al 1971, quando fu invece pubblicata nella raccolta Relics; solo negli Stati Uniti e in Giappone era già apparsa su un album, precisamente come traccia d’apertura della versione americana di The Piper at the Gates of Dawn.

The Scarecrow contiene lo sviluppo di alcuni temi sull’esistenzialismo, dato che in esso Syd paragona la sua esistenza a quella dello spaventapasseri (lo scarecrow), “più triste di lui, ma comunque rassegnato al suo destino”. Tale tematica sarebbe divenuta in seguito un pilastro nel linguaggio lirico della band. La canzone contiene una sezione strumentale barocca in stile folk psichedelico comprendente l’utilizzo di una chitarra acustica a 12 corde e di un violoncello. La versione statunitense del singolo (Tower 356) venne pubblicata dalla Tower Records per ben tre volte tra il luglio 1967 e la fine del 1968, ma sempre senza riuscire a replicare il successo riscosso in Gran Bretagna.

Ma a chiarire la peculiarità dei Pink Floyd, anche a chi non abbia avuto la fortuna di vederli dal vivo tra faretti fantasmagorici e macchine del ghiaccio, ci pensa nel luglio 1967 un album in massima parte firmato dal carismatico e affascinante leader Syd Barrett, e che dei pezzi precedentemente citati recupera soltanto The Scarecrow.

Ad aprire i due lati di The Piper At The Gates Of Dawn ci sono Astronomy Domine e Interstellar Overdrive. La prima è caratterizzata da un gioco di chitarre liquide e fulgide a rimpiattino tra stanze in cui rimbomba forte l’eco; la seconda è una epopea cosmica propulsa da un riff elastico che lascia spazio nella lunga parte centrale a momenti di pura improvvisazione.

Astronomy Domine si apre con la voce del manager dei Pink Floyd dell’epoca, Peter Jenner, che recita i nomi delle stelle attraverso un megafono. L’intenzione di questa apertura è quella di replicare le sensazioni dello spazio profondo; la voce di Jenner sembra quella di un astronauta che parla attraverso un intercom. Si sente anche un messaggio in codice Morse all’inizio di questa canzone, che era un modo per trasmettere messaggi utilizzando una serie di toni lunghi e brevi. Si è cercato per anni di decifrare tale codice, ma si ė appurato che era solo una serie casuale di toni senza alcun significato.

Interstellar Overdrive è una delle prime sperimentazioni strumentali psichedeliche registrate dal gruppo. Il brano è stato inoltre descritto come la prima incursione dei Pink Floyd nello space rock (insieme alla suddetta Astronomy Domine), anche se il gruppo rifiutò sempre questa definizione per la propria musica.

Interstellar Overdrive ebbe origine quando il manager dei Pink Floyd Peter Jenner canticchiò a Syd Barrett un brano del quale non riusciva a ricordare il titolo (probabilmente My Little Red Book dei Love di Arthur Lee. Barrett iniziò a seguire il canto di Jenner improvvisando alla chitarra e sviluppando poi il tema come la base per la melodia principale del riff di Interstellar Overdrive.

Il bassista Roger Waters disse a Barrett che il riff del brano gli ricordò la sigla del telefilm Steptoe and Son (di Ron Grainer). Barrett trasse ispirazione anche da Frank Zappa e dai Byrds di Eight Miles High per la sezione free-form di Interstellar Overdrive.

Lo stile di questi due brani influenzerà successivamente album della band come Ummagumma o The Dark Side of the Moon e basterebbero queste due tracce a rendere The Piper At The Gates Of Dawn un classico della psichedelia inglese.

A iscriverlo definitivamente nelle pietre miliari del rock di ogni genere ed epoca, provvedono altre canzoni splendidamente “disturbanti” come Lucifer Sam , con chitarre distorte a intessere una melodia svagata, o Matilda Mother, trafitta da una solista arabeggiante e dove si sente forte l’influenza del mentore psichedelico e musicista indiano Ravi  Shankar, che con il suo sitar riuniva folle di giovani e non solo nei parchi di Londra.

C’è anche la fluttuante Chapter 24 e il ticchettante procedere di Flaming e Pow R. Toc H, oltre al fiabesco affabulare di The Gnome e Bike, con tanto di coro finale di ranocchi, a chiarire che saranno pure matti e strani, ma pericolosi magari no. Noi posteri e fan lo sappiamo bene, forse solo Syd (e senza forse) è stato pericoloso per se stesso, purtroppo.

E’ il primo sfoggio creativo e carismatico del “Diamante Pazzo” chiamato Syd Barrett, un vortice di follia e genio che diede il via alla leggenda Floydiana, col dubbio di sempre che ancora attanaglia i fans della band inglese:  i Pink Floyd sarebbero stati gli stessi che oggi celebriamo e conosciamo se Barrett fosse rimasto al timone del gruppo?

 Una cosa è certa. Senza la genialità di Syd e di canzoni come Arnold Layne o album come The Piper At The Gates Of Dawn , il mondo non si sarebbe mai accorto dell’esistenza di questa band che non conosce età.