#TellMeRock, 4 Gennaio 1967: L’album d’esordio dei Doors e quella sottile linea tra buio e luce

EDITORIALE – Onestamente è difficile immaginare un anno più straordinario di quel 1967 in cui molti capolavori sono stati prodotti, ma, per quanto ognuno di noi abbia il legittimo esercizio del gusto musicale personale, è indiscutibile che il disco più importante sia l’opera prima dei Doors, il gruppo che aveva preso spunto da una celebre frase di Aldous Huxley sulle porte della percezione: “Ci sono cose conosciute e cose sconosciute, tra le porte”, in between the doors.

Break On Through è la canzone che apre l’omonimo album dei Doors, pubblicato proprio il 4 gennaio del 1967. Il brano, incredibile a dirsi oggi, non ottenne alcun successo, non superando la 106^ posizione in classifica.

Del resto, le charts erano dominate da canzoni più semplici come Winchester Cathedral della New Vaudeville Band o I’m a Believer dei Monkees. Jim Morrison, il futuro Re Lucertola, scrisse Break on Through in una mattinata, mentre camminava per Venice, sulla costa di Los Angeles. Era indirizzata a una ragazza che frequentava in quel periodo, ma l’invito a passare dall’altra parte, cioè a sperimentare il contrario di ogni cosa per accrescere la sua conoscenza, era più che altro rivolto a se stesso.

Questo stupefacente inno all’ignoto e al buio è introdotto da un assolo di organo che ricorda da vicino l’intro di What’d I Say di Ray Charles. Gli avvocati della Elektra, la casa discografica dei Doors, suggerirono una censura: in un verso si diceva che la ragazza di cui si parlava andava su di giri (she gets high), ma quel termine – high – poteva rimandare direttamente alla droga.

Così nella primissima versione si sente Jim Morrison cantare she gets, she gets e poi un grugnito.

Controllate a casa, se avete il grugnito al posto di high significa che avete l’edizione originale, ovvero la versione storica di un brano più che storico.

The Doors è uno dei debutti più folgoranti e uno dei massimi capolavori della storia del rock. Intenso e visionario, il disco è espressione perfetta del talento poetico di Morrison, ma anche della grandezza degli altri musicisti: Robby Krieger, Ray Manzarek e John Densmore.

Un gruppo che ha fatto delle sue visioni futuristiche e anche un pò “oltre” una vera e propria missione musicale. Ne sono dimostrazione netta, già in questo primo album d’esordio, brani che ancora oggi narrano leggende e sono Storia.

Basti pensare che a Robby Krieger non era mai passato per l’anticamera del cervello di scrivere canzoni, ma nel dicembre 1965 quando i Doors erano ancora un gruppo ma non “il gruppo di Jim Morrison“, ognuno assecondava gli input degli altri. Così quando Ray Manzarek invitò tutti a scrivere almeno una canzone, anche lui si mise alla prova.

Il primo risultato, Light My Fire, fu straordinario. Il secondo, Love Me Two Times, eccellente. Le completò lo stesso giorno, in un’ora, in un irripetibile sblocco creativo.

Musicalmente Light My Fire risente di due ispirazioni: la prima è Blueberry Hill, di Fats Domino, mentre l’organo e l’assolo di chitarra pagano qualche debito alla cover in stile jazz di John Coltrane di My Favourite Thing di Julie Andrews.

Il testo è interamente farina del sacco di Krieger, a parte un verso di Morrison, e non è necessario essere profondi conoscitori dell’opera del leader dei Doors per capire di quale si tratti: è l’ultimo verso della seconda strofa, quello che dice “il nostro amore può diventare una pira funeraria”.

Canzone molto lunga, sette minuti, ma dal testo brevissimo, composto di soli undici versi. Nel suo diario Morrison ha stupito tutti dicendo che Light My Fire, prima hit dei Doors e rampa di lancio dell’opera prima uscita cinquantaquattro anni fa, non gli piaceva per niente e che detestava il pubblico quando la richiedeva a gran voce nei concerti.

Ma l’omonimo album d’esordio ha radici profonde per i Doors, i quali combattono continuamente con vecchi fantasmi del passato e nuove visionarie esperienze. E’ il caso del tenebroso capolavoro The End, nata nel 1966 per descrivere la fine della storia tra Jim Morrison e una sua ex fidanzata.

Dopo mesi e mesi di interpretazioni dal vivo sul palco del “Whisky a Go Go”, il celebre locale sul Sunset Boulevard di Los Angeles, The End si è evoluta in qualcosa di diverso, meraviglioso e terribile allo stesso tempo: un canto esteso di dodici minuti, maestoso e inquietante, che può essere letto in mille modi diversi.

Lo stesso Morrison, in un’intervista del 1969, sosteneva che ogni volta che la ascoltava cambiava la sua visuale interpretativa. Era nata come semplice addio a una ragazza ma si era trasformata nel canto d’addio alla giovinezza e al passaggio alla vita adulta. Era questo il senso di quei versi parlati che compaiono nella seconda metà del brano, con riferimenti spinti verso Padre e Madre.

Erano nate si come omaggio all’Edipo Re di Sofocle (che uccise il padre, sposò la madre e poi si cavò gli occhi per espiare), ma non erano da interpretarsi alla lettera, come voglia di rompere gli schemi e cercare la libertà assoluta senza vincoli, nemmeno quelli familiari.

Inutile sottolineare che nella prima versione in studio, quella del 4 gennaio 1967, la parola fuck è coperta da un urlo.

Indimenticabile l’uso che ne fece Francis Ford Coppola nel 1979 in Apocalypse Now, dove The End compare due volte. All’inizio del film, preceduta dal rumore degli elicotteri, poi polvere e fuoco, buio, esplosioni e morte e, sopra ogni cosa, la voce di Jim Morrison. E, quando Willard entra nella camera di Kurtz e lo uccide con un machete, Coppola sovrappone le immagini dell’assassinio al sacrificio di un bue da parte dei montagnard, gli aborigeni vietnamiti, sempre con un machete. Ed è sempre con la voce di Morrison che poi attraversa la giungla.