#TellMeRock, 4 Giugno 1984: Gli Stati Uniti di Springsteen e il rock del sogno americano

EDITORIALE – Nel febbraio 1982 Springsteen ha Nebraska alle porte e Johnny Cash in testa. The Man in Black, che grand’uomo, e che fantastico artista. Bruce è in studio con Roy Bittan e Max Weinberg, comincia ad adattare le parole a quel ritmo, mentre i due amici gli vanno dietro con gli strumenti che hanno davanti.

Poi succede una cosa strana: il ritmo è indiscutibilmente rockabilly e molto, molto Johnny Cash, così tanto che il maestro la rileggerà in modo superbo nel 2000. Il brano trasuda fisicità e tensione sessuale, come nei vecchi rhythm and blues o nelle canzoni di Jerry Lee Lewis, ma eccola la stranezza, il binario che guida la locomotiva sonora è il sintetizzatore, ovvero quanto di più lontano possa esistere da Johnny Cash, da Jerry Lewis, dal rockabilly e da Nebraska

Ecco perché I’m On Fire troverà posto solo su Born in The Usa, album pubblicato il 4 giugno 1984, e molto più eclettico e aperto di Nebraska, che è invece più acustico, cupo e desolato. 

Anche il video è importante, perché è il primo in cui Springsteen non compare su un palco. Come in Uptown Girl di Billy Joel, il Boss è un meccanico a cui una bellissima signora della upper classe porta la sua Ford Thunderbird ad aggiustare un giorno si e l’altro anche, pretendendo che sia sempre lui a lavorarci. La scena finale vede Bruce Springsteen raggiungere la casa di lei, una splendida villa in collina che cita la Mansion Of Hill di Nebraska; quando sta per suonare alla porta e dare alla ragazza quel bacio che lei gli ha sempre fatto capire di volere, Bruce si ferma, sorride, e infila le chiavi della macchina nella buca delle lettere. Molto signore, ma molto poco rock n’roll caro Boss… 

La carriera e la vita di Bruce Springsteen, dopo Born in the U.S.A. non sarebbero più state le stesse. Prima di questo album, il cantante del New Jersey aveva avuto una solida carriera di successo, portando il singolo Hungry Hearts (dall’album The River) nella Top 5 e l’album stesso a vendite più che significative, come del resto gli altri della sua carriera, iniziata discograficamente nel 1973. Niente a che vedere con i quarantacinque milioni di dischi venduti da Born in the U.S.A. in tutto il mondo; il settimo album fu quello dell’esplosione del mito del Boss a tutti i livelli. Un grande e ormai famoso interprete che diventa una icona assoluta della musica e della cultura popolare a livello mondiale, portando i sette singoli estratti dall’album tutti nel Top 10 statunitense (evento ripetuto solo due altre volte nella storia delle classifiche americane) e il disco stesso a ingaggiare un lungo duello con Purple Rain di Prince per l’album in testa alle classifiche più a lungo tra 1984 e 1985. Un successo incredibile e straordinario che Springsteen, per la prima volta, aveva perseguito volontariamente.

L’idea di aprirsi ad un pubblico più ampio venne al cantante, paradossalmente, proprio mentre stava componendo l’album più cupo e intimista della sua carriera, lo splendido Nebraska. Il cantante, che attraversava evidentemente un periodo straordinario di ispirazione, si trovò con un lotto di canzoni che non sarebbero state in linea con l’album che andava creando. L’atmosfera di Nebraska doveva riflettere un mood oscuro e duro, quasi ostile e senza speranza; per questo diversi brani furono scartati, ma non dimenticati, da Springsteen. In effetti, le canzoni che andranno poi a comporre Born in the U.S.A. condividono spesso una struttura acustica di partenza ed anche a livello lirico gli argomenti trattati resteranno gli stessi: gli eroi piccoli del cantante sono sempre loro, in guerra per la propria dignità e per un posto nella ricerca della felicità, diritto sancito dalla Costituzione statunitense; un mito esaltato poi da quello del “sogno americano”, quell’idea che col lavoro, col talento e con l’impegno, chiunque negli U.S.A. può trovare successo, denaro e felicità e realizzarsi a pieno. Uno scenario al quale Springsteen non rinuncia, ma del quale denuncia per converso le difficoltà, i limiti, i costi sociali e, soprattutto, i dolori individuali di chi da questa corsa folle finisce schiacciato o spinto ai limiti, ma non rinuncia alla propria dignità di uomo. Rispetto a Nebraska, però, i protagonisti di Born in the U.S.A., sembrano animati da una sorta di “pessimismo storico” leopardiano, per il quale la speranza, tutto sommato, resta un’opzione possibile, piccola, sfuocata, lontana, ma vera e palpabile. Una chiave di lettura che sarà una delle ragioni del successo del disco, in anni in cui gli Stati Uniti di Reagan ricercavano sicurezza, i contorni netti e definiti della propria identità e facevano i conti con i fantasmi del Vietnam, tentando di esorcizzare quella ferita profonda. Un parallelo questo che lo stesso Reagan tentò di sfruttare a suo favore, assicurando –o millantando- di apprezzare la musica del cantante ed i valori che lo stesso inseriva nelle proprie canzoni. Tentativo al quale Springsteen non volle rispondere direttamente, limitandosi ad affermare che, probabilmente, il Presidente pur essendo un suo fan, non aveva evidentemente ascoltato Nebraska.

L’apertura di Born In The Usa è affidata all’omonima traccia, il successo massimo del Boss che gli consegnerà nella seconda metà degli anni 80 la prima fila sul palco del rock mondiale. Born In The Usa è una storia americana qualsiasi, è la storia di un ragazzo, delle sue difficoltà, del suo mangiare la polvere, è una storia fatta di amore e Vietnam. Una storia fatta di un rock incalzante e ruvido che si intrinseca alla perfezione con la voce rauca di Springsteen. Lo stesso dicasi per Cover Me, Darlington Country e Working On An Highway. Pezzi da saloon del vecchio west suonati con la Fender Telecaster.

Nessun artista, in fondo, ha raccontato il sogno americano come Bruce Springsteen, mostrandone tutte le illusioni e ambiguità.

Il Boss è noto per canzoni impegnate, ma anche per brani profondi e disillusi. I suoi testi e la sua grande presenza scenica hanno reso anche più potenti le sue canzoni. 

«Ci sono album che vivono di vita propria e tu non puoi farci niente» ha detto Bruce a proposito di Born in the Usa che vendette 30 milioni di copie nel mondo e lo trasformò nella più grande rockstar degli anni ’80, «Ecco perché decisi di arrendermi al disco che mi cambiò la vita, allargò a dismisura il mio pubblico e mi costrinse a riflettere meglio su come presentare il mio lavoro»

Dancing in the Dark è il primo singolo di Springsteen da Open All Night, un pezzo da Nebraska pubblicato il 22 novembre 1982. Un brano minimale, l’unico in cui suona la chitarra elettrica, registrato come gran parte di Nebraska da Springsteen da solo con un registratore a 4 piste nella sua casa di Colts Neck, in New Jersey durante un periodo di isolamento e introspezione.

Il contrasto con Dancing in the Dark non potrebbe essere più forte: due anni dopo la desolazione di Nebraska, Bruce irrompe nella musica del 1984 con un ritmo incalzante che aggiorna il rock’n’roll al suono del decennio, un tempo di 149 bpm al minuto e un intro di organo dirompente suonato da Danny Federici. Diventa la più grande hit della sua carriera, numero due in America il 30 giugno del 1984, primo di una serie da record di sette singoli estratti da Born in the Usa che finiscono tutti nella Top 10, canzone dell’anno secondo la rivista Rolling Stone (che la inserisce anche nell’elenco delle 500 Canzoni che hanno creato il Rock and Roll) e fa vincere a Bruce il suo primo Grammy Award nel 1985.

Il successo si deve anche al videoclip girato da Brian De Palma durante un concerto della E Street Band al Saint Paul Civic Center di Saint Paul, Minnesota il 28 e 29 giugno 1984 in cui sulla coda strumentale, Bruce allunga una mano verso il pubblico e fa salire sul palco a ballare con lui una ragazza, interpretata dall’attrice Courtney Cox, che diventerà famosa con la serie Friends (Bruce ha raccontato che nonostante De Palma gli avesse detto di scegliere Courtney, lui non aveva idea che fosse un’attrice arrivata apposta da New York). Una scena perfettamente costruita che lo fa entrare nell’immaginario rock degli anni ‘80 e porta Springsteen sugli schermi di MTV (vince anche un MTV Award come Best Stage Performance).

Ma l’origine di questo incredibile successo è un processo complesso, in cui Bruce dimostra tutta la sua riluttanza a diventare un autore di successo nel nome dell’autenticità. «Più che ricco o famoso o di successo, io volevo soprattutto diventare grande» come ha detto lui stesso.

Dancing in the Dark diventa la numero 1 nelle classifiche di molti paesi. La canzone fu interamente scritta da Springsteen nella sua stanza d’albergo durante una sola nottata, su indicazione (però) del manager Jon Landau, che chiese al Boss di scrivere un ulteriore singolo per il lancio dell’album. No, Springsteen non ne fu felice, ma – benché arrabbiato – scrisse quel singolo capace di raccontare quel suo stato emotivo: lo stato emotivo di un uomo isolato e al tempo stesso frustrato dal momento che era alla ricerca di un nuovo singolo, ma che fosse un nuovo singolo di successo.

Springsteen spiegò a Rolling Stone la storia è le motivazioni dell’album Born In The Usa, con queste parole: ‘Penso che ciò che sta succedendo ora è che la gente ha voglia di dimenticare. C’è stato il Vietnam, c’è stato il Watergate, c’è stato l’Iran, siamo stati sconfitti, ci hanno fatto pressione e per finire siamo stati umiliati. Penso che la gente abbia bisogno di provare sentimenti positivi nei confronti del proprio Paese”. Questo sentimento non ha comunque impedito al Boss di conservare una profondità ed un’originalità in diverse canzoni, sorprendendo il pubblico per sound e stile.

Perfino la copertina di Born in the U.S.A. diventerà una icona pop e il posteriore di Springsteen in primo piano sarà l’ennesimo tassello vincente di un album che trasformerà il rocker in una leggenda. L’idea di base, era quella di mettere la bandiera in copertina, visto il titolo dell’album, che si apriva appunto con la titletrack, poi la scelta definitiva cadde su una foto di spalle perché, a detta dello stesso Springsteen, la foto del suo culo sembrava migliore della foto della sua faccia. In realtà, qualcuno volle interpretare in maniera provocatoria la copertina, sostenendo che il cantante stesse in realtà urinando sulla bandiera. Ipotesi del tutto smentita e categoricamente da Bruce Springsteen.

Siamo in conclusione al cospetto di un disco ottimo, che di per sé non sarebbe particolarmente diverso dagli altri album del cantante statunitense, non fosse proprio, come suddetto, per la propensione voluta da lui e dal produttore Jon Landau e accompagnata dalla Columbia. La casa discografica credette nel progetto e lanciò il disco con una campagna promozionale enorme, che lo portò ad essere sovraesposto per quasi due anni, ottenendo delle vendite stratosferiche e una permanenza di 84 settimane nella top ten statunitense.

Ma Born in the U.S.A. non è solo il frutto di una forte campagna pubblicitaria ed il suo valore non si misura con i record di vendita, o parleremmo di capolavoro ad ogni disco che vende molte copie. Probabilmente non è neanche il miglior disco del Boss, a dirla tutta. La verità è che, come detto nella prima parte della recensione, l’album rappresentò qualcosa di più di una raccolta di ottime canzoni: qui si misurava un intero Paese, un’intera nazione, un’intera generazione. Milioni di persone che si riconoscevano nelle parole e nella musica di Bruce Springsteen e che fecero di Born in the U.S.A. la colonna sonora di quegli anni e di quel periodo. Non capita spesso che queste convergenze si creino e questo è uno di quei casi. In questi termini, non si può non parlare di capolavoro e dopo tanti anni il tempo ha tolto poco o nulla a questi brani e questo è un altro segno del solco che questo disco ha lasciato e del valore intrinseco delle canzoni in esso contenute. Un capolavoro è per sempre.

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