EDITORIALE – La Bosnia, la nascita di movimenti neo-nazisti in Germania, il terrorismo mafioso in Italia, la crescita del tasso di disoccupazione nei paesi dell’ex Blocco Occidentale, in una parola Zooropa.
Naturalmente, nessuno di questi temi è realmente esplicitato nell’ottavo album degli U2 pubblicato il 5 luglio del 1993. Tuttavia l’atmosfera inquieta di Zooropa – un album grottescamente divertente, come un ultimo valzer sul punte del Titanic, come lo definì all’epoca Rolling Stone – ben si adatta alla contemporaneità del Vecchio Continente. “Mi sento come se stessi lentamente, lentamente, lentamente scivolando via”, sussurra Bono nel mezzo di Lemon, un brano dal vertiginoso ritmo disco, “Mi sento come se non avessi nulla in mano”. Se messo in confronto alla crisi spirituale, le certezze svanite della Guerra Fredda sembrano confortanti. Per questo Zooropa, per certi versi, è ancora tristemente attuale.
Lemon è un pezzo geniale che fa della modernità la sua arma vincente, nel quale Bono sfodera una prestazione incredibile, cantando quasi perennemente in un ironico falsetto. Un brano dance rock il cui titolo è ispirato a un vecchio filmino di casa Hewson, dove la mamma di Bono, Iris, indossa un cappotto giallo limone, mentre il testo non è altro che un elogio all’ingegno umano. Il brano, così come le liriche, si evolvono lentamente a ritmo dance, partendo appunto dalla descrizione del vestito indossato dalla madre del vocalist.
Per la maggior parte registrato all’inizio del ’93, Zooropa era stato inizialmente pensato come un’EP per spremere del succo dalle date europee del loro Zoo TV Worldwide Tour. Tuttavia la band è stata colta da un’irrigazione più profonda e, con la produzione, di Brian Eno, the Edge e Flood, è nato questo album di 10 tracce per la durata complessiva di circa 50 minuti.
Storicamente gli U2 ai loro album più importanti hanno sempre fatto seguire progetti apparentemente meno faticosi e e ambiziosi. Per esempio, dopo War (1983) e The Unforgettable Fire (1984) furono lanciati degli Ep live che effettivamente riuscirono ad allentare la pressione sulla band, permettendo così agli U2 di sperimentare verso qualsiasi nuova direzione estetica preferissero.
Con Zooropa il risultato è di gran lunga più soddisfacente: l’album è un audace e ingegnoso seguito di Achtung Baby (1991), l’indiscusso capolavoro degli U2. Zooropa spezza tutte le intimidatorie aspettative commerciali seguite al precedente album, non avvicinandosi a nessuna delle varie scelte artistiche prese in passato dalla band. È un disco variegato e decisamente sperimentale, ma il suo stato d’animo carico di anarchia vertiginosa soffusa di terrore a malapena represso fornisce un filo conduttore convincente.
Fin dalle prime battute la title track crea l’atmosfera per tutto l’album. Nel momento in cui inizia la canzone un grandioso, bellissimo e profetico giro di pianoforte fa da tappeto ai segnali statici e indecifrabili dell’inferno da età dell’informazione di Zoo Tv.
È con una frase tedesca che viene introdotto il viaggio che stiamo per affrontare e allora Zooropa, parola che accorpa due nomi: Europa e Zoo, ci ricollega inevitabilmente il vecchio continente con uno zoo nel quale noi stessi siamo gli animali da osservare, così come era stato rappresentato nella “Zoo Station” di “Achtung Baby“. Dalla stazione zoo di Berlino, che capta messaggi proveniente dalle comunicazioni spaziali, una serie di voci si accavallano confusamente adagiate su strani effetti elettronici amalgamati ai cupi rintocchi delle tastiere. L’Europa si trasforma in zoo. “Il progresso è tecnologia” dice in tedesco Bono, dando inizio a un suadente oscuro elettro-rock tecnologico. Le distorsioni della chitarra effettata di The Edge sono alienanti, Larry Mullen subentra quasi timidamente, l’atmosfera è notturna, misteriosa ma pacata. I messaggi che vengono cantanti da Bono sono presi direttamente dalle pubblicità che la stazione televisiva, la ZooTv, riesce a captare, e infatti la prima strofa non è altro che uno sciorinamento di frasi ad effetto realmente passate sullo schermo.
L’esuberante paranoia di Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan riceve una spinta postmoderna in Numb. Sopra una traccia dai ritmi ipnotici e ripetitivi e stridenti chitarre industrial, The Edge intona inconsciamente una serie di disconnessi ammonimenti post-apocalittici per gli attoniti sopravvissuti (“Non ti muovere/ Non ti muovere/ Non parlare fuori tempo/ Non pensare/ Non preoccuparti va tutto bene/ Va tutto bene). Nel frattempo Bono sussurra in un falsetto sbigottito “Mi sento insensibile / Il troppo non è abbastanza”.
L’album contiene anche la stupenda Stay (Faraway, So Close!) , uno dei brani sicuramente più belli degli U2. Il brano fa parte della colonna sonora del film “Così Lontano, Così Vicino” di Wim Wenders, amico della band, il quale proprio nel 1993 gira il seguito del capolavoro “Il Cielo Sopra Berlino”. La poesia delle immagini estratte dalla pellicola è qui immortalata dalla musica degli irlandesi, attraverso un susseguirsi melodico di grande raffinatezza. La batteria di Mullen batte colpi metallici mentre The Edge esegue delicati arpeggi che vanno dritti al cuore dell’ascoltatore. “Luce verde, Seven-Eleven. Ti fermi per comprare le sigarette, non fumi e non ne hai nemmeno voglia. Controlli il resto, le ruote girano ma tu sei sottosopra. Dici che quado lui ti colpisce a te non importa, ma quando ti ferisce ti senti viva“. Il Seven-Eleven è una catena di negozi, qui la protagonista delle liriche si ferma non appena scatta il semaforo verde per comprare le sigarette. Proprio mentre afferra il resto si ricorda del suo uomo, deceduto non molto tempo prima e trasformatosi in angelo custode, come suggerisce poi il film. Questo angelo si aggira in città, siamo sempre a Berlino, una città cupa, lacerata da un muro che ora non c’è più ma che ancora presenta tracce, anche se ci si sta riprendendo. La malinconia di un tempo è però ancora presente, le linee vocali sono trascinanti, tanto evocative, tanto poetiche, capaci di creare immagini potenti, quasi filmiche. “Luci rosse, mattinata grigia. Inciampi in una buca sul suolo, un vampiro o una vittima, dipende da chi c’è in giro. Eri solita restare ferma a guardare lo schermo, tanto che avresti potuti doppiare i talk-show“. I colori sono importanti, sono le sfumature della città, un posto dai colori smorti, slavati, nei quali si aggirano anime in pena, afflitte dal dolore. In giro si intravedono queste anime, sono vampiri succhia energie, oppure vittime in balia del destino. Umani e angeli, tutti nello stesso mondo terreno. Il pre-chorus è nobile, dove l’angelo si palesa davanti alla ragazza e riesce a percepire i suoi pensieri, prova persino a toccarla, attraversando il suo corpo di carne: “Se tu guardi, guardi attraverso me. Quando parli, tu parli a me, quando ti tocco, tu non senti nulla“. I cori si rafforzano, così la chitarra e il basso, intanto la batteria resta glaciale, espressione sonora della città. Bono ci delizia con il ritornello, da cantare a cuore aperto e con tutta la voce in gola: “Se potessi rimanere, allora la notte ti lascerebbe in pace. Resta e il giorno manterrebbe le sue promesse, resta e la notte sarebbe abbastanza“. I toni si smorzano, le strofe riprendono da dove avevano lasciato, anche se adesso The Edge è più presente con la sua ascia, creando una serie di toccanti fraseggi. “Lontano, così vicino. Su con l’elettrostaticità della radio, con la tv satellitare puoi andare ovunque: Miami, Londra, Berlino, New Orleans, Belfast. E se tu ascolti io non posso chiamare, se salti potresti cadere, se gridi io sento appena“. Lo spirito degli angeli è come energia elettrostatica indotta dagli strumenti elettronici, radio e televisori satellitari che creano queste onde magnetiche che riverberano nell’aria e di città in città. L’angelo fa la guardia alla sua amata, ma è stremato perché non la può toccare e lei non può sentirlo. Sono tanto vicini quanto lontani. “Resta con i demoni che hai affogato. Resta con lo spirito che ho trovato. Resta e la notte sarà abbastanza” l’implora la celeste figura, ma sa già che si tratta di un amore diviso e impossibile. Tra i cori in sottofondo, Bono declama l’ultima struggente nota: “Tre in punto del mattino, è calmo e non c’è nessuno. Solo il colpo di un angelo che precipita a terra“. Il tonfo amaro di un cuore spezzato.
Figlio della svolta stilistica di Achtung Baby, Zooropa esaspera ancor di più i toni sperimentali e modernisti del precedente lavoro, riuscendo a incastrare la filosofia artistica degli U2, ossia quella radicata nel rock, nel punk e nel blues, con il pensiero minimalista di Eno riscontrabile nei suoi album ambient, concentrati interamente sull’elettronica e sulle atmosfere ovattate.
L’ottavo capitolo di una discografia incredibile per qualità e successo nasce nei ritagli di tempo, durante le pause dal tour, nato dalla nevrosi psichica che coinvolge Bono e soci e catturato nei pochi frangenti a disposizione.
L’opera magari non è eccelsa, ma sicuramente è vincente: gli U2 ed Eno non hanno molto tempo per i dettagli, è vero, alcuni pezzi vengono registrati al volo e inseriti in scaletta, altri sono solo abbozzati, molti altri invece non trovano nemmeno posto perché fin troppo astratti, ma l’ispirazione e il coraggio sono talmente elevati che tale incompletezza viene elegantemente mascherata da una classe infinita che solo i grandi possiedono. Ed è proprio dall’incompletezza di una Berlino divisa in due che incomincia il viaggio, per poi estendersi per migliaia di chilometri in giro per il continente… per tutta Zooropa