EDITORIALE – Il noto “seduttore” David Jones, in arte David Bowie, all’ epoca di questo disco era un ventitreenne già bello che sposato e in procinto di diventare padre; pur tuttavia sceglieva di conciarsi in questo modo in copertina adeguando, ancora non troppo efficacemente, il magnifico suo aspetto androgino alle parimenti notevoli voglie trasgressive, frutto di una personalità irrequieta e ben poco influenzata dalle tipiche inibizioni perbenistico-religiose del suo paese, nonché di buona parte del resto del mondo.
Detto ciò, Bowie è primariamente famoso quale una delle massime personalità della musica mondiale contemporanea, nomea concretizzatasi sin dalla prima parte di carriera durante la quale, dopo un’infruttuosa ma in fondo breve gavetta, si può dire non abbia sbagliato un disco. Pure questo è quindi interessante, anche se quasi negletto rispetto agli altri. In altre parole questo suo terzo album, mentre che assolve al ruolo di passaggio fra il dominante folk psichedelico del secondo lavoro “Space Oddity” e il sostanziale glam rock del quarto “Hunky Dory”, ne resta anche sensibilmente schiacciato essendo entrambi quei lavori non meno che eccellenti. Ma sarebbe, come si dice, scartar grasso liquidare The Man Who Sold The World, pubblicato il 6 novembre del 1970, come opera minore.
Certo che, deconcentrato dalla paternità incombente, Bowie lascia fare anche troppo al bassista e produttore Tony Visconti e al nuovo chitarrista Mick Ronson, mettendo così l’opera sui binari di un lavoro di gruppo vero e proprio almeno per quanto riguarda la fase primordiale dei pezzi, ai quali poi applicare la sua benedizione, le sue linee melodiche, i suoi testi e… le sue royalties. Così qui e là vi sono parti condotte né più né meno in trio British Blues chitarra, basso e batteria, in libera jam session che neanche i Cream, i Mountain o la James Gang! E nel lungo brano di apertura “The Width of a Circle” a Ronson sono concessi tre assoli tre uno dietro l’altro (il pezzo è comunque molto bello diviso com’è in due parti, la prima rockblues con un bel riff discendente di chitarra e la seconda proto-glam, col ritmo a marcetta e i coretti sguaiati del caso).
Ma più ancora che dalla deriva hard blues, il disco è caratterizzato da una diffusa cupezza che lo rende massimamente anticommerciale e impegnativo. Pare che molta della responsabilità sia dovuta al luogo che aveva funto da sala prove al tempo, una spelonca del periodo Edwardiano lugubre anzichenò, ma forse e piuttosto sono i gravissimi problemi di schizofrenia del fratellastro di Bowie, ricoverato in una clinica per pazzi furiosi appena fuori Londra, ad ispirare, oltre ai testi cupi e tormentati, i toni claustrofobici e l’uso degli strumenti nelle loro estensioni tonali più basse.
La voce del giovane David è già magnifica in “All the Madmen”, mentre che disserta con un timbro da incubo di tranquillanti, elettroshock, lobotomie e pezzi di coscienza che vengono portati via un po’ alla volta.
“Black Country Rock” invece ha l’evanescenza decadente del miglior Marc Bolan, figura molto seguita da Bowie (e da tantissimi musicisti della scena londinese del tempo) prima ancora di diventare famosa. Purtroppo Visconti pecca di megalomania e tiene il suo basso, competente ma tutt’altro che geniale, in eccessiva evidenza nel mix manco fosse Jack Bruce (oltre tutto suona lo stesso suo modello di strumento, ossia il tonitruante Gibson “diavoletto” dal suono gommoso e invadente) ed anche Ronson è ancora lontano dal futuro, perfetto ruolo da Dottor Sottile, a’la John Paul Jones, che si ritaglierà nei tre album successivi, dosando alla perfezione la sua lancinante chitarra e liberando il suo eclettismo addirittura verso arrangiamenti orchestrali da caposcuola.
In questo disco c’è già tutto il carisma di Bowie, che nella sua grandezza, carisma e personalità, getta i semi della futura dark wave. Ad esempio la canzone da il titolo al disco, la più nota anche grazie alla cover a suo tempo rilasciata da devoti fans del giovane Bowie quali erano i Nirvana, è costituita da un ondeggiante ed ipnotico riff di Ronson a legare insieme strofe parecchio ermetiche e fantasiose e successioni squisitamente “Bowiane” di accordi, ma è poi assai tarpata delle strane scelte di missaggio, con la batteria tutta compressa a palla in un unico canale stereo come ai bei tempi (obsoleti) di Ringo sui vecchi dischi dei Beatles, per far pure troppo posto a un giro che sta lì a grattare il ritmo nell’altro canale.
Come per altri dei suoi lavori dei primi anni settanta, David Bowie ha mantenuto a lungo la massima segretezza intorno al significato di The Man Who Sold the World. Alcuni biografi hanno suggerito un modello nel poema guerresco Strange Meeting di Wilfred Owen, il cui narratore entra in un paesaggio onirico dove incontra il soldato nemico ucciso in battaglia, altri hanno visto attinenze con Il compagno segreto di Joseph Conrad, Incontro di notte di Ray Bradbury e, soprattutto nei sinistri versi iniziali, con la poesia Antigonish di Hughes Mearns conosciuta anche col titolo The Little Man Who Wasn’t There:
(EN)
«Yesterday, upon the stair
I saw a man who wasn’t there
He wasn’t there again today
I wish, I wish he’d go away»
(IT)
«Ieri, sulla scala
Ho visto un uomo che non era lì
Non era lì anche oggi
Vorrei tanto, vorrei tanto che se ne fosse andato via»
Nel 1997 Bowie ha parlato del brano durante lo special radiofonico della BBC ChangesNowBowie: «Penso di averla scritta perché c’era una parte di me che stavo ancora cercando… Per me quella canzone ha sempre esemplificato lo stato d’animo che si prova quando si è giovani, quando ci si rende conto che c’è una parte di noi che non siamo ancora riusciti a mettere insieme, c’è questa grande ricerca, un gran bisogno di comprendere realmente chi siamo»
Claustrofobico, tetro ed oscuro, “pesante” quanto più poteva esserlo la musica pop e rock all’alba degli anni settanta, senza velleità commerciali o quantomeno senza riuscire a mettere ancora a fuoco commercialmente il genio motivico e comunicativo di Bowie, l’album si infila nel novero dei “buoni, ma non capolavori” a riguardo dell’estesissima discografia del nostro. Va ascoltato tutto d’un fiato e nello specifico, avendo la sua precipua atmosfera, il suo suono agli estremi del pop, la sua spiccata uniformità determinata dal valore e dal mood quasi costante di tutte le canzoni, la pretesa di richiedere concentrazione ed esclusività per poter entrare in “vibrazione” con esso.