#TellMeRock, 6 ottobre 1992: Automatic For The People e l’introspezione rock, politica e sentimentale dei R.E.M.

EDITORIALE – A un anno dal successo di Out Of Time, album della loro ascesa, i Rem decidono sorprendentemente di rimettersi in gioco, in barba alla major discografiche e alle reazioni dei fans, ancora estasiati e presi da brani di successo quali Losing My Religion e Shiny Happy People. Invece di andare in tour ecco che Stipe e soci pensano al seguito e si mettono al lavoro senza davvero mettere piede su un palco. E non tanto per battere il ferro del successo, al contrario. Per la prima volta fanno un passo indietro con le vendite. Poco importa a loro, perché in fondo si attestano sempre su cifre milionarie, e importa ancora meno agli estimatori della band: in molti votano per Automatic for the People, pubblicato il 6 ottobre 1992, alla voce disco preferito, l’album che ha più chance di staccare gli altri in una produzione che per qualità è sempre stata piuttosto (e anche molto) generosa.

Nessuna mossa speculativa quindi, che del resto nessuno, conoscendo il gruppo, si sarebbe aspettato, e al suo posto una gestazione anomala, che ha fatto dire a Bill Berry in una vecchia intervista, con una curiosa metafora, che questo successore del loro multiplatino è stato «un uccello e poi un topo, un cane, un caterpillar», prima di diventare quello che era ed è. Con un feeling locale – il titolo è rubato dallo slogan di un ristoratore di Athens – ma registrato un po’ in giro per gli States, New Orleans, Woodstock, Miami, e una puntata all’estremo Nord, a Seattle, capitale del new rock USA. Doveva essere un album elettrico e aggressivo, quello che sarà due anni dopo Monster; è invece pacato e intimo, solo in Ignoreland si accende di rabbia echeggiando il sound potente di Document.

È un disco che va un po’ in controtendenza con tutto. Nell’anno in cui il rock ritorna con prepotenza e urla drammaticamente la sua rabbia con una rumorosa new generation, i R.E.M. gli dedicano un’elegia tutta chitarra acustica, mandolini, violoncelli, in cui gli arpeggi byrdsiani della chitarra di Peter Buck suonano come rintocchi a lutto. Criptica, come sanno essere solo i testi e il canto di StipeDrive. Baby, rock and roll, vi siete persi nella boscaglia (bushwacked: qualsiasi riferimento a un certo presidente sarà casualmente voluto).

Ed è proprio un senso crepuscolare che si respira nei testi, un senso della tragedia imminente, in ballate come Try Not to Breathe che raccontano l’agonia, e nell’accorato valzer soul di Everybody Hurts con cui si vorrebbe esorcizzare il male di vivere della generazione X, dei ragazzi appena più giovani che gridano la loro disperazione con le chitarre a palla. Una delle caratteristiche di Michael Stipe, leader dei Rem tornato in video quattro anni fa grazie al brano  No Time For Love Like Now” in cui “invita ad amare mai come ora”, è quella di scrivere testi obliqui e difficilmente interpretabili, oltre che cantare in modo a volte indecifrabile. Ci sono poche eccezioni e una di queste è proprio Everybody Hurts, colonna melodica portante di Automatic For The People.

E’ una canzone scritta in gran parte da Bill Berry, che avrebbe lasciato i R.E.M. cinque anni dopo, nel 1997. Questa volta Stipe canta in modo lineare e perfettamente comprensibile, per una ragione molto semplice: il messaggio doveva arrivare chiaro e diretto perché è un invito a resistere al suicidio. Non è un caso che sia esplicitamente citato un verso di Rock n’Roll Suicide di David Bowie (quello dove si dice oh  no, you are not alone…) e che la canzone sia stata adottata dal Nevada, lo Stato americano con la più alta percentuale di suicidi giovanili.

L’arrangiamento d’archi di Everybody Hurts è opera di John Paul Jones, bassista dei Led Zeppelin e il video è stato girato da Jake Scott, figlio di Ridley (regista di Blade Runner e de Il Gladiatore solo per citarne alcuni), ed è stato filmato sulla Interstate 10 a San Antonio, nel Texas.

Il pezzo più pop, The Sidewinder Sleeps Tonite – un po’ tanto Wimoweh – sembra arrovellarsi in immagini troppo strane e contorte per farne una pop song ’92 da spendere per le superclassifiche. Nel 1988 Stipe si era impegnato in prima persona per la campagna elettorale di Michael Dukakis, candidato democratico poi sconfitto da Bush senior; ma Green era a confronto un disco più positivo di questo, che esce mentre l’America si appresta finalmente a voltare pagina portando alla casa bianca Bill Clinton dopo dodici anni buttati tra reaganomics e busherie varie.

In controtendenza sonora rispetto al boom grunge che sembra aprire un nuovo decennio con uno scoppio salutare, Stipe, Buck, Mills, Berry cantano la waste land (del rock) dei loro tempi, le macerie dell’era Reagan, Bush, l’AIDS, e l’angoscia del diventare adulti una volta che si è passata la fase della teenage angst indipendente. Out of Time non è che non abbia lasciato una scia, anzi. Lo spostamento dell’asse del suono remiano da chitarra, batteria, basso ai nuovi inserti di tastiere, archi, qualche volta anche fiati, il banjo di Monty Got a Raw Deal, l’armonium di Sweetness Follows, è insomma una delle premesse di questo disco di una bellezza paradossale eppure intoccabile come quella del sound rock, ma da camera e in bianco e nero.

Una fotografia musicale che nei toni è a metà strada tra l’aria dimessa da film di Jim Jarmush e le stilosissime immagini di Anton Corbijn, di un understatement sotto sotto raffinato, come gli arrangiamenti per archi curati da John Paul Jones, esemplari per ricchezza ma anche senso della misura, che se no avrebbero rotto facilmente quel filo teso di emozioni gonfiando le trame oltre il lecito. Altro elemento di continuità con il disco della consacrazione mainstream sta nel fatto che un paio di melodie vengono proprio da lì. 

Nightswimming  è forse la canzone dei R.E.M. con il testo più poetico, parla di ricordi, di come da giovani è più facile fare cose difficili e di come è bello nuotare di notte, nudi, nei laghi in estate. Un pezzo che raffina il refrain di Radio Song e il motivo di Half A World Away e li incastra nell’armonia, nella progressione di accordi perfetta, al pianoforte, che potrebbe girare all’infinito tanto è in grazia d’iddio (il cerchio perfetto, perfect circle, come cantava il dottor Stipe ai tempi di Murmur).

Immersi nel loro rock intimista – per chiudere con due perle di folk-pop elegiaco chiamate Man on the Moon Find the River – su cui spira un’aria da music from the big pink dei The Band e insieme da gotico americano, i georgiani riescono a travalicare i tempi e dipingerne un affresco che potrebbe valere per qualunque epoca (Ignoreland è perfetta per gli anni di Trump… tanto per dire eh).

Tornando alla conclusiva Find the River, è un altro inno alla bellezza ed importanza di trovare ciò che si cerca, cercare ciò che si è, anche quando questo non è semplice, non è comune.

E’ l’album che a mio avviso più rispecchia l’animo rock e umano dei Rem, uno spaccato interiore che Stipe e soci prendono come sfida a se stessi prima e al “sogno americano” poi, visto più come un incubo a cui reagire e da cui guardarsi bene.

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