EDITORIALE – Prima di parlarvi del disco di oggi, devo confessarvi una cosa: in questo album è presente la canzone con cui ho “mimato” di suonare la chitarra con il battitappeto di mia madre (per fortuna mai usato per scopi più deleteri).
Nel 1978, in piena tempesta punk, i fratelli Knopfler colsero di sorpresa il panorama musicale spedendo in classifica un rock “da pub”, minimale per quanto solido che, sulla scorta dell’esempio di J.J.Cale, metteva insieme echi Dylaniani e blues morbido.

Il 7 ottobre del suddetto anno, i Dire Straits pubblicano il loro primo e omonimo album.
Scoperti e prodotti qui da Muff Winwood, fratello del più noto Steve (già membro di The Spencer Davis Group, Traffic e Blind Faith), riescono nella non agevole impresa di mettere d’accordo critica e grande pubblico in virtù dell’abilità chitarristica di Mark Knopfler ( Down To The Waterline e soprattutto la celeberrima Sultans Of Swing su cui tornerò) e dell’approccio artistico tenuto verso le sonorità d’oltreoceano (Lions, Wild West End), per il resto alternando una fresca vena melodica (Water Of Love, SouthBound Again), con attimi di riflessione e occasionali cupezze (In The Gallery e Six Blade Knife).
Ma la canzone di punta che ha permesso al gruppo di farsi conoscere al mondo, è sicuramente Sultans Of Swing, primo singolo del 1978 e prima esplosione dei Dire Straits i quali dimostrano sin da subito di non voler tenere fede al proprio nome , che significa letteralmente ‘Tempi Duri’.

L’idea venne a Mark Knopfler a Ipswich, in una serata piovosa. Prima di andare a dormire entrò in un locale dove una band molto mediocre stava finendo il suo set. Nel disinteresse generale , il cantante salutò il pubblico dicendo: “Good Night and thank you, we are the Sultans Of Swing” .
Un nome decisamente pomposo per un gruppo insignificante, Knopfler tenne il nome e non lo stile, nel brano non c’è traccia di swing e raccontò cos’era successo quella sera .
Curiosità: Knopfler scrisse la canzone alla chitarra acustica prima di passare alla Fender Stratocaster .
Altra “chicca”: quando Mark canta “A band us blowing Dixie playing double four time”, non significa che ha suonato otto volte. Il Dixie Double è uno stile, reso popolare da Django Reinhardt, dove gli strumenti suonano al doppio della velocità.
La copertina dell’album raffigura un quadro di Chuck Loyola.

Ma il disco riuscì a sfatare un altro tabù.
È infatti inusuale imbattersi in un connubio (ben riuscito) tra rock britannico puro, suonato con passione e senza fronzoli, ed un genere musicale di derivazione popolar-americana. Quasi che Knopfler volesse evitare a tutti i costi gli eccessi che l’Inghilterra viveva in quegli anni. Se a questo aggiungiamo il curioso vezzo del chitarrista di chiedere ai gestori dei locali di tenere sempre i volumi dei loro ampli al minimo, in modo tale da non disturbare le conversazioni del pubblico, si capisce subito che l’intento di Dire Straits non era sicuramente quello di farsi ricordare per la sua prepotenza.
Un altro motivo per cui ricordo bene questo disco, è legato all’eleganza sconfinata delle chitarre: brani storici e seminali come Down To The Waterline e Sultans Of Swing mettono in luce un amore incondizionato per le sei corde, senza urlare distorsioni roboanti nè segando le corde con i plettri, ma piuttosto arpeggiando ed accarezzando gli strumenti con saggezza e dedizione.
Un prodotto per molti ma non per tutti, oggi come allora a quarantasei anni di distanza: ne consiglio senza esitazione l’ascolto e l’acquisto, ma a patto di non aspettarsi qualche tipo di rivoluzione violenta.
L’intento di Knopfler è e sarà sempre quello di portare alla luce il lato meno diabolico del rock, e chissà che questo non gli garantisca un posticino nell’Olimpo o nel Paradiso dei chitarristi compositori. Per me è così e tale resterà.