EDITORIALE – Nel gennaio del 1969, i Beatles erano vicini allo scioglimento.
John Lennon trascorreva gran parte del suo tempo con Yoko Ono, che veniva spesso in studio come “ospite non gradita”, George Harrison era sempre più infastidito da come le sue canzoni venissero sistematicamente rifiutate, Ringo Starr non capiva e non gradiva il modo in cui la più grande band dell’epoca stesse andando a rotoli, dilaniata da contrasti interni.
Paul McCartney stava cercando di tenere insieme i pezzi, e per farlo aveva scelto la via più difficile e rischiosa: prendere in mano le redini del gruppo. Una scelta molto anarchica dopo la morte del loro manager Brian Epstein, la quale aveva sconvolto e aumentato i dissapori interni. Dei quattro, va detto, Paul era paradossalmente quello che più voleva un futuro dei Beatles.
Stava diventando paranoico, però. Si divideva tra lo studio di registrazione , il set del documentario a colori che sarebbe uscito con il titolo Let It Be e il letto, nel quale continuava a domandarsi cosa stesse accadendo e come uscirne.
Una notte sognò sua madre, morta quando aveva quattordici anni. Purtroppo la uccise un tumore ed era da molto tempo che Paul non la sognava.
Nel sogno la madre gli disse: “I Will Be All Right, just let it be” (andrà tutto bene, lascia che sia…)
McCartney si precipitò al piano, come aveva fatto quando aveva sognato la melodia di Yesterday e scrisse di getto Let It Be.
La mother Mary che pronuncia parole di saggezza quando il protagonista è nei guai, non è quindi la Vergine Maria, ma la mamma di Paul, che si chiamava Mary e che come tutte le madri è presente nelle nostre “hours of darkness”.
Quando uscì, solo un anno più tardi, cioè il 6 marzo del 1970, il singolo Let It be divenne, per i fan dei Beatles, anche il triste messaggio del futuro sciogimento.
Lascia che sia… è destino.
Let It Be è il dodicesimo album del gruppo musicale britannico dei Beatles (tredicesimo considerando anche l’album Magical Mistery Tour, in origine pubblicato come LP solo negli USA e come EP in UK).
Pubblicato l’8 maggio del 1970, il disco vide la luce dopo che, il 10 aprile dello stesso anno, il gruppo aveva già ufficializzato il proprio scioglimento. Registrato inizialmente pressoché in presa diretta, nel mese di marzo del 1970 l’album venne affidato al produttore Phil Spector che ne curò il missaggio e che, con l’aggiunta di cori e di arrangiamenti orchestrali, ne modificò in alcune parti il risultato finale.
Lo spunto originario risale al 45 giri Hey Jude/Revolution e al relativo videoclip promozionale girato il 4 settembre 1968 per la regia di Michael Lindsay-Hogg negli studi di posa di Twickenham; in quella circostanza il gruppo avrebbe dovuto suonare davanti a un numero limitato di invitati selezionati, ma il passaparola fece radunare un pubblico molto più numeroso del previsto che si assiepò quasi a contatto con i musicisti mentre questi venivano ripresi durante le esecuzioni di prova di Hey Jude. Questa situazione risvegliò nel gruppo l’entusiasmo per le esibizioni dal vivo e il desiderio di esibirsi di nuovo in un concerto. Il progetto – inizialmente concepito con il titolo Get Back – venne ideato da Paul McCartney come un recupero di quell’impronta rock e dell’approccio live che li aveva caratterizzati all’inizio della loro carriera: un “ritorno alle origini”, e non solo sotto il profilo musicale.
L’idea di fondo era che – al pari del primo disco, Please Please Me, registrato in un’unica seduta di dodici ore nel 1962 – i Beatles dovessero abbandonare le strumentazioni elettroniche e le sovraincisioni a vantaggio delle registrazioni in presa diretta.
È invece davvero impressionante la serie di gioielli presenti qui, e notevole la ricchezza dei testi, soprattutto di Paul. Alcune delle cose scritte da McCartney in questo disco meritano davvero l’applauso. Come diceva John Lennon: “Quando voleva scrivere un bel testo, lo faceva benissimo”. Paul scrisse queste canzoni dopo la fine delle sessions del “White”, quando nei suoi “times of troubles” aveva capito che dopo la fine del matrimonio di John con Cynthia, anche il suo matrimonio con i Beatles stava per finire. Molti testi riflettono questa amara consapevolezza.Ora passo a un mezzo track-by-track, perché queste canzoni se lo meritano, visto quanto sono belle e sottovalutate.
“I Me Mine” è una canzone di Harrison sull’eccesso di ego. Purtroppo, il testo non è eccezionale, ma alcuni versi rimangono eccellenti. L’idea è davvero bella.
“Across the Universe”, secondo Lennon, così com’era, era “ un brano scarso a causa della mancanza di lavoro”. Non si è mai capito cosa volesse dire. Si tratta di uno dei suoi massimi capolavori, per come la musica (splendida) si unisce al testo (eccellente dal punto di vista metrico). Strano che questo pezzo fu disprezzato e qualificato come noioso da Ian MacDonald. Il testo non piace quanto a contenuto, perché parla delle esperienze di Lennon con l’ LSD. Ne esistono due versioni, una più pesante, direi “mandolinata” nel disco (opera di Phil Spector) e una più sobria, più folk-malinconica, e per me più bella, nel “Past Masters II” (pubblicata circa un anno prima come singolo).
“Dig a Pony” è un’ottima canzone, un pezzo alla chitarra molto fantasioso e ben ritmato. Il testo è sciocco. Con tutto quello che John poteva dire all’epoca (la stampa che lo odiava per via di Yoko Ono, la sua tossicodipendenza (eroina in vena), l’arresto per droga, la fine della sua amicizia con Paul, la sua voglia di lasciare il gruppo e cambiare vita) sprecò una canzone così per scrivere sciocchezze. In ogni caso, se è vero che, nel contenuto, si tratta di un testo insulso, dal punto di vista tecnico è davvero studiatissimo. Un testo a notevole (benché nonsense), calato benissimo nella musica. Una canzone di cui essere orgogliosi: se non un capolavoro, di sicuro un capolavoro minore. Davvero notevole il miglioramento di Lennon come chitarrista (qui con la sua chitarra bianca, divenuta celebre grazie al concerto sul tetto della Apple Records); sarebbe potuto diventare un ottimo chitarrista – se non avesse lasciato vincere la sua pigrizia o l’influenza di Yoko Ono.
“I’ ve Got a Feeling” rappresenta uno dei massimi capolavori melodici dei Beatles, con un bel lavoro di alla chitarra. Pur essendo una canzone d’amore, “I’ ve Got a Feeling” è assolutamente matura: è Paul McCartney che dice che finalmente ha trovato la donna giusta. È la “A Day in the Life” minore del gruppo, per via dell’inciso di John Lennon nel testo di Paul (“Everybody had a hard year….”) – inciso che entra benissimo nella canzone, ma non perfettamente nel testo. Non ci voleva molto a migliorarlo. Non ci fu davvero la voglia di lavorare (da parte di John) per portarla alla perfezione.
Anche “The Long and Winding Road” non l’ho mai vista come una canzone d’amore. Se le interpretazioni personali sono ammesse, nella mia “interpretazione col senno di poi” la vedo come un atto di rassegnazione di Paul verso l’amico che ormai completamente perso dietro Yoko: “La strada lunga e tortuosa percorsa da noi due, non scomparirà mai. Non saprai mai le volte che ho pianto, e che tentato (di salvare la nostra amicizia)”. Sia come sia, la metto tra i capolavori del gruppo, nonostante l’arrangiamento troppo “da colonna sonora hollywoodiana” di Spector. La stupenda versione originale con Billy Preston all’organo (che si trova nel film omonimo) lascia incantati per la sua grazia e sobrietà; capisco benissimo l’ira di Paul per quello che fece Spector.
“Two of Us” è un ricordo di Paul verso l’amico fraterno John e, come scrive Antonio Taormina, “la strada di casa rappresenta inevitabilmente il lungo viaggio percorso dai due Beatles”. Davvero un bellissimo folk, e uno dei migliori testi di Paul McCartney . Il “Goodbye” finale lascia una piccolo spazio alla speranza che John tornasse in sé.
In “Get Back” (uno dei capolavori musicali di McCartney), Paul non si abbandona ai ricordi ma scrive quasi una supplica (molto ben mascherata da un testo apparentemente insulso) perché il suo amico fraterno ritorni in se stesso “Get back Jo”, e perché Yoko Ono (qui chiamata “Sweet Loretta Martin”) se ne vada via (“Get back to where you once belonged”). Da guardare la versione del concerto sul tetto, con un bravissimo Lennon alla chitarra e un virtuoso McCartney al basso.
Al di là delle sciocchezze scritte da alcuni critici e delle metafore inerenti allo scioglimento dei Fab Four, “Let It Be” è davvero un album eccellente: 7 pezzi che sono tra i massimi mai composti dai Beatles.
Ciò che riempie di rimpianto, è il fatto che quando un dirigente della EMI, vedendo la pochezza delle canzoni del Medley, disse ai Beatles di fare un best tra le migliori di “Abbey Road” e le migliori di “Let It Be”, Lennon si infuriò dicendo che di Let It Be “non voleva nemmeno sentirne parlare” .
Forse a conferma che davvero lasua storia con Yoko Ono, mise definitivamente la pietra tombale sulla leggendaria band di Liverpool