#TellMeRock, 9 Giugno 2007, l’Era Vulgaris dei Queens Of The Stone Age e quel ritorno alle origini

EDITORIALE – A due anni dall’uscita di Lullabies To Paralyze, i fans dei Queens Of The Stone Age, cominciavano a chiedersi quale fosse l’assestamento definitivo del sound del gruppo. Il 9 giugno del 2007, dopo aver ascoltato Era Vulgaris, questi ultimi possono affermare tranquillamente che di cambiamenti ce ne sono stati abbastanza per non rimanere delusi.

Premessa: Homme è chiaramente un volpone e sa come attirare l’attenzione mediatica su di sé. Ha chiamato a collaborare per il disco artisti del calibro del compianto Mark Lanegan (e questa non è una novità), Trent Reznor dei Nin Inch NailsJulian Casablancas degli Strokes.

Bene. Trent viene coinvolto nel pezzo omonimo Era Vulgaris, che alla fine è stato pubblicato solo nelle versioni inglese e giapponese e che tra l’altro è un brano a dir poco telefonato. Casablancas compare come voce e chitarra in Sick Sick Sick (tra l’altro primo singolo del disco) ma alzi la mano chi ha sentito una nota della sua ugola o un suo riff caratteristico.

Detto questo e aldilà di queste inezie, va premesso anche che Era Vulgaris, quindici primavere oggi, è un album particolare, quasi a due facce. Da un lato la tendenza verso un suono hard rock molto duro e pesante, dall’altra la ricerca di accurate melodie morbide e vellutate. Il tutto ancora inframmezzato di residui stoner, anche se ormai siamo distanti anni luce non solo dai tempi dei Kyuss, ma anche solo dall’album omonimo di una decina di anni prima e da Rated R.

Un altro fattore che spunta fuori saltuariamente è l’autocitazionismo, ossia la tendenza a specchiarsi narcisisticamente nel proprio passato offrendo schemi, ritmi e anche canzoni (è il caso di Make It Wit Chu ripresa da quel gran calderone delle Desert Sessions) marchio di fabbrica inimitabile della band. Si percepisce chiaramente la mancata volontà di Homme di uscire dai binari e avventurarsi in nuove direzioni. D’altronde va detto che arrivati al quinto disco può essere comprensibile la volontà di ancorare il proprio sound al proprio passato musicale, specie se glorioso come quello dei QOTSAHomme ha comunque cercato di ovviare al problema con un ritorno ad un suono rock primordiale, in cui al cuore della composizione trova la sua posizione di prestigio un riff o un assolo intrigante ripetuti ossessivamente fino allo sfinimento.

L’arrivo di Era vulgaris tronca il discorso con una retromarcia tanto violenta quanto inattesa, facendo sospettare che si tratti dell’ennesimo tentativo di Homme di sorprendere gli appassionati e spiazzare la critica. In particolare è un guanto di sfida verso quelle prime malelingue che iniziavano a bollarlo come il solito travet del rock, pronto a clonarsi all’infinito pur di fare cassetta. Invece i QotSA spezzano il sottile filo di continuità che legava gli ultimi lavori e ricominciano tutto da capo, con un disco molto più simile a quello d’esordio che alla produzione successiva.
Rispetto a dieci anni prima

ci sono differenze di contorno, piccole sfumature che non nascondono la volontà di rispolverare le vecchie teorie robotic-rock elaborate all’epoca insieme ad amici come Fatso Jetson o Masters of Reality.

Questo è il motivo centrale di un album costato mesi di impegno e lavoro, ma che alla fine presenta la stessa atmosfera rustica e granulosa delle realizzazioni rock-stoner americane di fine ’90.
Il disco piacerà a chi aveva mal digerito gli svarioni sonori di Lullabies to Paralyze, ma la sensazione più forte è quella di un lavoro dedicato ai fedelissimi della prima ora. Il primo nucleo di fans attirati dalla speranza che i QotSA si rivelassero i veri eredi dei mitici Kyuss, poi conquistati da questa creatura diversa nella forma ma ugualmente affascinante.

La sessione di ascolto si apre con la perfetta Turnin’ On The Screw limpido esempio della sintesi ricercata da Josh sin dal precedente Lullabies To Paralyze, tra le armonie vocali e la barriera sonora tipica del Robot Rock, arricchita dalla atmosfera psichedelica che riecheggia in tutto il lavoro.

Segue la già sopra citata Sick, Sick, Sick cui partecipa alle chitarre ed ai Backing vocals il cantante oltre che chitarrista degli Strokes, Julian Casablancas che con dei riff efficaci arrichisce un brano ispirato in cui si avverte una latente deriva garage, innegabile anche in Misfit Love ed I’m Designer in cui la batteria scandisce ritmi fugaci più assimilabili al progetto collaterale di Josh Homme, gli Eagles Of Death Metal.

Non mancano episodi smaccatamente stoner, come la multi arrangiata e quasi schizofrenica “3’s And 7’s”, indubbiamente un brano ruffiano in cui la batteria Ludwig di Castillo e gli amplificatori sparati sino alla ionosfera, regalano sussulti, mixando più generi che portano a un pezzo comunque notevole.

Run, Pig Run ed Era Vulgaris alla quale collabora anche Trent Reznor, anima dei Nine Inch Nails, le quali ricordano episodi storici della discografia dei Queens Of The Stone Age (su tutte riaffiorano alla memoria Burn The Witch”“Someone’s In The Wolf” e “Monster In Parasol”).


Menzione particolare per I Wanna Make It Wit Chu tratta dall’ultimo “tomo” delle Desert Sessions cui partecipa Pj Harvey, con un arrangiamento simile al precedente sebbene dal sapore meno lo-fi. Un brano che richiama allusioni sessuali è provocatori, nel pieno stile di Homme.

Ulteriori mid-tempo, cui siamo abituati sin dall’ultimo album, completano la scaletta (Running Joke e la particolare Suture Up Your Future).


Nel disco sono sempre presenti i temi sornioni ed accattivanti che hanno fatto la fortuna della band, vedi i singoli Sick, sick, sick e 3’s & 7’s, ma la loro confezione ignora le logiche commerciali presentandosi ostica ed irta di spigoli. Brani farciti di riffs angolari e di rigidità meccanica, più adatti ai cultori delle Desert Sessions che alle rotazioni sui media. Atmosfere ironicamente tecnologiche che profumano di ingenua sci-fi anni ’60, ritmi ossessivi che martellano con una precisione ai limiti del maniacale, retrogusto urbano ed alienante da catena di montaggio, questo è ciò che attende coloro che prevedevano una seconda parte del glorificato Songs for the deaf.

Non basta infatti il romanticismo placido di Into the hollow o quello amaro e notturno in Suture up your future a bilanciare la corrente di cyber-psichedelia che scorre attraverso l’album, dal potente ingresso di Turnin’on the screw all’alienante finale Run, pig, Run. I QotSA sono e saranno sempre un cantiere aperto a qualsiasi contributo, pur mantenendo la propria inconfondibile identità.

Il responso è chiaro. Se siete tra i pochi ad aver apprezzato i QotSA grazie agli storici primi split-cd o al disco d’esordio, Era vulgaris è stato realizzato proprio per voi. Al contrario, se della band conoscete a malapena quel paio di fortunati video-clip, è opportuno riflettere bene prima di un eventuale acquisto.