#TellMeRock, a quarantuno anni dall’esordio dei Metallica e quel Kill’Em All che cambiò la storia del metal

EDITORIALE – In un certo annuario di un certo liceo di Los Angeles, fine anni ‘70/inizio ‘80, possiamo leggere: “JAMES HETFIELD: Ama: il rock heavy metal, lo sci d’acqua, andare ai concerti. Odia: la disco, il punk. Dichiara: lunga vita al rock. Progetti per il futuro: fare musica e diventare ricco”.

Già da queste parole possiamo intuire che questo ragazzo, con una situazione familiare molto difficile (la mamma morta di cancro), voglia cambiare vita concedendosi a delle grandi ambizioni. Inizia infatti poco tempo dopo a spianare la lunga strada della carriera, suonando la chitarra elettrica con un suo amico improvvisatosi bassista, Ron McGovney, in una casa lasciata libera dai familiari di quest’ultimo. E’ materiale grezzo, acerbo, ancora non ben definito, quello che producono. Legittimamente, decidono di ingaggiare un batterista, per costituire almeno un trio. Chiamano un ricco ragazzotto danese trasferitosi negli Stati Uniti: Lars Ulrich. Il “provino” col gruppo non è tra i migliori. James onestamente dichiarerà: “Quando abbiamo chiamato Lars per il nostro gruppo, è stato una delusione. Come batterista faceva ca**re…”.

Dapprima lo cacceranno, poi lo richiameranno, trovandolo notevolmente migliorato. Per trasformare il trio in un quartetto, provvedono a chiamare un abilissimo chitarrista solista, Dave Mustaine, un ragazzo a volte un po’ picchiatello. Questi sono ufficialmente i primi Metallica. Verrà poi una lunga “discriminazione” a base di scherzi di McGovney da parte dei tre, col conseguente ritiro del bassista e l’assunzione di quello che diventerà uno dei più grandi suonatori metal di questo strumento a quattro corde: Cliff Burton, un giovane serio e preciso, provvisto di eccellente preparazione classica (MozartBachBeethoven) e di notevole tecnica. Una vera miniera d’oro in un sol colpo.

Questa sarà la formazione che rimarrà per un certo periodo di tempo. I quattro, nella vita privata, risultano un bel disastro, con una vita regolata da alte consumazioni alcoliche. Lo stesso non si può dire riguardo al profilo musicale. Incidono infatti, per la Metal Blade (importante etichetta metal indipendente), un importante brano che ancora oggi riesce a riassumere parte della loro filosofia: “Hit The Lights. In successione, portano a conclusione tra l’82 e l’83 il loro, primo demo: “No Life ‘Til Leather”(primo verso di “Hit The Lights”). Esso è provvisto di tutte le canzoni che andranno nel futuro lp, tranne una certa “The Mechanix”(incisa dal successore di Mustaine, un giovane allievo di Satriani con basi chitarristiche soliste anni ‘70, Kirk Hammett) che verrà sostituita da una terribile, stentorea canzone, The Four Horsemen.

Uscito il 25 luglio del 1983 con una tiratura modesta di copie, “Kill’Em All”, che raggiunse la classifica Usa il 10 agosto di quell’anno, già dal titolo dimostra di essere filosoficamente nichilista e molto, troppo schietto. Lo scopo principale dell’album è, senza ombra di dubbio, riassumere in dieci tracce incandescenti sentimenti di odio al nazismo (inteso come profonda violenza), devastazione, tributi al rock (e involontariamente al punk) che fu, lacrime di profonda commozione distorta, corde incatramate alla Motörhead, follia Ac-Dc, tardo romanticismo ribelle. James Hetfield in quest’occasione non riesce a cantare, semplicemente… urla. Ma ciò non è affatto da considerarsi una pecca, è solo un minimale meccanismo costituente questa macchina quasi perfetta. Empiricamente parlando, anzi, udiamo la sua inflessione vocalica da teenager aspra, immatura, quasi incapace di cambiare tono, ma in questo complesso di difetti è così perfetta poiché parte integrante della mentalità del gruppo. Ad un primo ascolto si ha l’impressione di assaggiare un miscuglio di polenta e cemento armato, ergo qualcosa di davvero difficile da digerire se non si riesce immediatamente a penetrare nella giusta ottica. Riprendendolo poi si inizia progressivamente ad intendere, scovare il vero concetto anticonformista.

La strage sonora trova il suo incipit con il loro, primo brano cronologicamente parlando. Se Hit The Lights da una sponda morale può sembrare ancora acerba, soprattutto per quanto riguarda le liriche (vedesi il primo verso: “No life’ til leather, we’ll gonna kick your ass tonight!”), da un’altra parte, quella sonora, si rivela già profondamente matura, essendo provvista di un’ottima porzione ritmica, scavalcata poi dai fulminei assoli torcistomaco, al culmine del limite sonoro.

Succede la sostituta, come abbiamo detto prima, di The Mechanix, ovvero una tra le migliori tracce, se non l’eccelsa.

Una sezione ritmica chitarristica analoga ad una forsennata cavalcata, scandita con precisione estrema dalla batteria, fanno sì che The Four Horsemen si dimostri, già di primo acchitto, un brano davvero godibile ed accattivante. L’incursione vocalica di James avvalora pienamente tale tesi, contribuendo a cospargere schizzi di sangue e ferocia in questi sette minuti di crociata “negativa”, fortemente distruttiva e pessimista, successivamente agitata da improvvisi cambiamenti di ritmo, il quale le conferisce un clima spettrale, prettamente nelle parti testuali (“Famine… Pestilence… Death”); poi, rassenerando l’apparato cardiocircolatorio dell’ascoltatore, sopraggiunge un lento assolo, corredato da una lucente parte ritmica, perfetta metafora musicale dell’espressione “buon viso a cattivo gioco”: è solo un calmante per permettere di arrivare alla successiva tempesta distorta e fortemente acidula, costituita da un beffardo, orrorifico assolo. Epilogo: riproposizione del tema principale e brusco smorzamento.

L’imprescindibilità di Motorbreath è pienamente giustificata partendo dal presupposto che si qualifichi come LA canzone ideale dei Metallica del periodo Burtoniano. Infatti in questa esperta e precisa composizione possiamo visibilmente ammirare la quintessenza della batteria thrash, entrata a far parte dell’immaginario collettivo di ogni drummer metal; la forsennata processione di cavalieri neri incanalati brutalmente negli overdrives di James e Kirk, i quali a livello strumentale riescono a donare la loro magnanimità, edificando l’idoneo edificio architettonico per la sede della follia, esagitato notevolmente da una inarrestabile maratona vocalica, ricca d’animo dello stesso Hetfield. Si percepisce, nel mitico assolo hammettiano, la massima estremità dell’insanire del quartetto. Ritmica sincopata, chitarre erosive, diluvio di bacchette, catrame nelle corde vocali.

Ed eccoci arrivati a qualcosa di davvero singolare. Jump In The Fire, da cui è stato tratto il primo EP, possiede nei suoi scarni caratteri un immenso pregio, il riff. Terribilmente accattivante, così irresistibile che spinge forzatamente l’ascoltatore a lasciar trascorrere i secondi sul lettore, si rivela in modalità davvero beffarda un temibile effetto collaterale. Consideriamo infatti il passo falso commesso nel brano: la ritmica davvero poco variegata si appoggia prevalentemente su questa godibile successione di accordi, la quale però a lungo andare annoia un po’. Ci troviamo con i piedi in una scarpa (e mezza).

Anesthesia (Pulling Teeth) si candida come il perfetto strumentale di un componente “secondario” perché non frontman, ma così fondamentale in quegli anni, lo stimatissimo Cliff. E’ qui, solo qui, che riusciamo a scovare il delizioso approccio alla commozione nel primo minuto, con una distorsione che dà l’idea di un antico videogioco, apparentemente suonata in modo approssimativo. La smentita arriva nella ultima fase, dove Burton viene fiancheggiato dalle pelli di Ulrich, riuscendo in questo modo a generare una avanzata forma di romanticismo in preda all’acetone. Ciliegina su di una torta forse spiacevole ad osservare, ma farcita dai migliori pasticcieri.

Le lacrime emozionali vengono messe a tacere dal veloce incipit (rullate + chitarre) di “Whiplash”. Si può definire un’interessante rivisitazione, forse, di “Motorbreath” in una salsa alterna, magari ancora più spietata. Il ritornello è previsto di un connubio tra smorzamento e accelerazione, per cui la voce di James (“Adrenaline starts to flow, you’re thrashing alla round, acting like a maniac… Whiplash!”) è collocata in un perfetto limbo sonoro da cui è praticamente impossibile riuscire ad evadere da un’altra parte. Il piatto forte è nella fase intermedia, in cui la parola del titolo viene contemplata (nel modo più schizzato possibile) solo al termine di una tormenta nevosa radioattiva, ammirevole e quasi inimitabile.

L’apertura all’avanguardia per Phantom Lord illude, non dando la minima possibilità di presagire l’imponente, irreversibile processione all’insegna dell’oscurità, di proporzioni titaniche, che trova un punto di fluidità nell’ennesima galoppata speed metal. Successivamente incrociamo pienamente una sorta di cattiveria celata nella goliardia negativa, terminante in arpeggi dolci e molto melodici, incredibilmente pertinenti al contesto. D’improvviso, ci ritroviamo pienamente tra l’orecchio esterno e quello interno uno straripamento di regolare distorsione, che fa a portare a termine la faticosa parata, riproponendo la parte principale e terminando brutalmente.

No Remorse mi riporta agli anni del Qube, in quest’affascinante odissea. Brano che ha gli attributi (ridondanza, potenza, aggressività e quant’altro), tipico dei primi Metallica che tra urla, schitarrate ed energia, trovano sempre il modo di dire qualcosa.

La genesi “007” di Seek And Destroy fa di essa una canzone fissata su piloni saldissimi, lezione rock di alta classe. L’intercedersi delle chitarre solista e ritmica è semplicemente delizioso, costituisce un’intesa perfetta tra i componenti del gruppo. La parte vocale è doverosamente partecipe, seppur in tono leggermente minore rispetto ad altre occasioni. Si riesce ad incarnare perfettamente una specie di Attila degli anni ’80, devastatore però non volgare, giustamente supremo, che porta alla distruzione totale tutto ciò che riesce a trovare. E lo notiamo nel cambiamento di ritmo intermedio-finale, di ossatura sincopata, rivestita di fasci muscolari solisti terribilmente potenti e piacevoli da udire, per orecchie allenate ovviamente.

Degnissimo epitaffio finale di questa inossidabile pietra lapidare trasfigurata su disco rigido è Metal Militia, che si diverte a gironzolare per tutti i brani prelevando spunti qua e là e amalgamando insieme ad essi caratteristiche proprie. Per esempio, l’iniziale distorsione a sfumare, il cacofonico assolo nel mezzo che pigia a tutto gas, contornato da un’inflessione vocale ossessa e fortemente insalivata da corrodere il palato, quasi le ghiandole producessero acido.

Kill’Em All quindi compone un roccioso tassello sia per quanto riguarda l’ambito musicale che quello emozionale. E’ la nascita del thrash metal, quarantuno anni or sono, del fenomeno Metallica e della leggenda che ne seguirà.

Pubblicità