#TellMeRock, Berlin: i cinquantuno anni del capolavoro di Lou Reed

EDITORIALE – Narra la leggenda che una volta Lou Reed, durante un concerto, fece il celebre attacco di “Sweet Jane” per poi interromperlo bruscamente, declamando col suo vocione. “Questo è per farvi vedere che si può costruire una carriera su tre accordi”. Eh si , il caro vecchio Lou ha scritto tante canzoni grandissime benché semplici ma l’immagine monolitica che spesso si associa al suo nome è smentita dalla sua carriera.

Senza dover per forza riesumare la leggenda dei Velvet Underground, il riccioluto New York City Man ha spaziato tra i più disparati generi, dal rumorismo sperimentale di “Metal Machine Music” alla rapsodia urbana di “Street Hassle”, fino al tetro tributo a Edgar Allan Poe dell’enigmatico “The Raven”. Ma anche nei suoi lavori più famosi, da “Transformer” e “New York”, aldilà degli scarti stilistici, ciò che ha sempre fatto la differenza è stato il senso poetico di Lou, come per YoungDylan e pochi altri capaci sempre di raggiungere altezze siderali.

Berlin”, pubblicato in Europa nel dicembre del 1973, è sintomatico in tal senso, ma amplia anche a ventaglio lo stile del suo autore: è l’opera più ambiziosa e più struggente nel catalogo dell’autore di “Walk on the wild side”. Un concept album imperniato sulla storia di una ragazza morta suicida, dopo che le sono stati tolti i figli per condotta immorale. La narrazione è scarna, lenta e funerea. L’ambientazione centro europea mischia abilmente echi di cabaret Weimeriano, e il Bertolt Brecht più intenso, socialmente consapevole e commovente – quello di “Dell’ Infanticidio di Maria Farrar” .

Il personaggio di Caroline, in cui non è azzardato ritrovare un riflesso delle tante donne che stavano attorno a Reed all’epoca ( dall’ex moglie BetteNico), percorre la propria via crucis in dieci episodi, muovendosi sia nei classici mondi loureediani ( la decadenza, lo squallore umano), sia nel lascito più puro dell’opera brechtiana ( la fragilità di tutti noi, l’avere bisogno degli altri).

La musica che sorregge il tutto è semplicemente grandiosa, di gran lunga il meglio mai prodotto dal Reed solista, ben lontano tanto per dirne una dalla magniloquenza fine a sé stessa di una “Perfect day”. Orchestrazioni sontuose ( “How do you think it feels”)blues mitteleuropei (“Berlin”), frammenti prog (“Lady Day”), derive jazz (“Oh Jim”) , r’n’b in moviola(“Men of good fortune” ), strazianti ballate (“The Bed” e “The kids”), fino al delirio espressionista alla Kurt Weill di “Sad Song”: il tutto giostrato dalla strepitosa produzione di Bob Ezrin.

Ecco a voi i cinquantuno anni del capolavoro di Lou Reed.