EDITORIALE – Non c’è niente di più brutto di avere una mezza grande canzone per le mani e non riuscire a finirla. Nel 1980 Bruce Springsteen aveva tre strofe, un’armonica che lacerava l’aria e feriva la parte più profonda di te, ma non aveva il ritornello.
Per scrivere il pezzo si era basato come sempre sulla realtà, stravolgendola fino a farla diventare fiction. Suo cognato aveva perso il lavoro nel settore delle costruzioni per via della crisi, ma non si era mai lamentato e aveva lavorato duro per mantenere sua moglie, sorella di Bruce, che aveva sposato quand’era ancora una ragazzina.
Bruce prese il nocciolo della storia, ma la rese drammatica e ne raccontò il lato opposto: Mary e il suo ragazzo si conoscono alle superiori, hanno appena diciassette anni, lui la mette incinta e per i suoi diciannove anni si regala la tessera del sindacato e un abito da sposo. Si sposano senza sorrisi e fiori, lui trova un lavoro ma lo perde quasi subito a causa della crisi. Il Boss era arrivato fin qui, ma non riusciva ad andare avanti. Un giorno, mentre è in casa, gli capita di ascoltare Long Gone, Lonesome Blues, una vecchia canzone country di Hank Williams che parlava di un tipo che andava giù al fiume per suicidarsi, ma trovò il fiume in secca.
Ecco l’idea del fiume come metafora dell’amore ed ecco come Bruce Springsteen, il 10 ottobre di quanrantadue anni fa, diede vita e parole al suo capolavoro The River.
Il Boss pensa che i due protagonisti della sua storia, quando si amavano, andavano a tuffarsi nel fiume ed erano felici; quando, alla fine della loro storia, lui ci torna di nuovo ma lo trova in secca.
The River è, a detta dei critici, un album ponte tra i lavori di Springsteen degli anni Settanta e quelli successivi, di cui sembra anticipare la cupezza e lo scoramento. E’ un po’ come se fosse un Greatest Hits questo doppio, però composto di brani inediti.
Ci sono i rock n’roll scatenati che Bruce suonava dal vivo ma non aveva mai messo su disco (Out In The Street, You Can Look, Cadillac Ranch, Ramrod) e raggelanti istantanee del buio ai margini della città (The Ties That Bind, Point Blank, The Price You Pay), canzoni tenerissime (I Wanna Marry You, Drive All Night), oppure esuberanti (Sherry Darling, Two Hearts, Crush On You), echi soul (Fade Away) e rock durissimi degni di un posto più in un album del calibro di Born In The Usa (Jackson Cage, I’m A Rocker).
In questo disco si comprende che è finita l’era di Born To Run, la corsa di due ragazzi verso qualcosa, un accenno di redenzione uno straccio di possibilità. Come scrive il grande e indimenticato Massimo Cotto, “quando arriva l’oscurità ai margini della città, su quella collina indicata da Bruce nella title track del suo quarto album “Darkness on the Edge of Town”, si bruciano i sogni, i protagonisti si fermano e cominciano a rimpiangere quel che è stato o a capire che non tutto andrà secondo i piani immaginati”.
Se Born To Run era movimento, Darkness on the Edge of Town è staticità. E’ un disco stanziale, perché i personaggi si sentono intrappolati non solo dal destino , ma dai loro stessi sogni. Il passo successivo, quello che conduce proprio verso The River è più complicato. Il primo brano che il Boss scrive si intitola Point Blank e guarda in una strana direzione. Dopo il movimento e l’arresto, sembra quasi che il cartello stradale riporti due sole parole: “Going Nowhere”. Ci si muove tra rimpianto e realtà ed è un correre a vuoto, un “Wendersiano” falso movimento. Si torna a correre, ma senza costrutto. Bruce Springsteen scriverà poi altre canzoni più solari e disincantate che rappresentano il polmone di The River, ma il cuore si trova in brani come Point Blank.
Il brano appartiene alla stessa famiglia di The River, perché la parabola finisce nel vuoto. Ma Point Blank è più devastante, impietosa, perché non ha nemmeno il conforto di un fiume in cui specchiare i propri fallimenti. E’ un pezzo crudo come un ritratto metropolitano di Lou Reed, è angoscia pura. Se The River ha il colore blu della malinconia, Point Blank contempla solo il nero. Tutto è avvolto da ombre, fin dai primi versi: le ombre della notte, della giovinezza sfiorita, della povertà, della desolazione, della morte. È nelle ombre di un bar che l’Io narrante rivede in sogno la sua amata, ed è proprio nell’ombra che si consuma l’atto finale: “Your Face was in the shadows but I knew that i was you”.
Point Blank è un film in bianco e nero senza il bianco, forse persino più dell’omonima pellicola del 1967 con Lee Marvin.
Menzione particolare la merita anche Hungry Heart, singolo di Springsteen inserito proprio nell’album The River.
Joey Ramone chiese a Springsteen di scrivere una canzone per il gruppo Ramones e quella stessa notte Springsteen scrisse “Hungry Heart” che però decise di tenere per sé su consiglio del suo produttore e manager Jon Landau. Il titolo del brano è ripreso dal verso dell’Ulysses di Alfred Tennyson: “For always roaming with a hungry heart”.
La voce di Springsteen venne leggermente accelerata nella registrazione producendo un’intonazione vocale più alta. Il brano raggiunse il 5° posto nella Billboard Hot 100 e rimase il suo singolo di maggior successo fino alla pubblicazione di Dancing in the Dark nel 1984. I lettori della rivista Rolling Stone lo votarono come miglior singolo dell’anno e persino John Lennon, proprio nel giorno della sua morte, lo definì come “il miglior singolo di rock n’roll dai tempi dei Beatles”.
Un album doppio che vede al suo interno la E Street Band al meglio della sua forma, con Clarence Clemons al sassofono, Roy Bittan al piano, Steve Van Zandt alla chitarra, Max Weinberg alla batteria, Danny Federici all’organo e Garry Tallent al basso.