EDITORIALE – L’ultimo disco realizzato da un artista prima della propria morte ha sempre qualcosa di speciale, una scintilla di magia che lo fa brillare un po’ di più. È l’ultima testimonianza artistica lasciata a questo mondo, la conclusione di un viaggio che comunque si sia svolto trova spesso un senso nascosto nella fine; e così la consapevolezza della scomparsa, il sapere che oltre quelle canzoni non ci sarà più nulla se non la luce forte del ricordo, l’addio, diventa tutto più dolce. Perché lo spirito stesso della musica si è fissato in quelle ultime composizioni, e con esse formerà un connubio indissolubile.
Cosa aspettarsi allora dall’ultimo album di Fabrizio De André, uno dei più grandi cantautori italiani (se non il più grande)? Fu proprio durante la tournèe concertistica di “Anime Salve” che gli fu diagnosticato il tumore che qualche mese dopo lo strappò alla vita. Seguirono onori, cerimonie, il funerale incredibile, i tributi; ma prima di tutto questo Faber ci aveva offerto un testamento artistico di bellezza cristallina che riusciva a sintetizzare tutti i tratti caratteristici della sua carrieri portandoli al massimo compimento, cioè alla sublimazione della parola che diventa potente messaggio.
“Anime Salve”, pubblicato il 19 settembre del 1996, è un disco molto complesso. De André veniva dalla grande esperienza di “Crêuza De Mä”, uno splendido intrico di lingue, culture e suoni diversi, la cui influenza aveva già segnato “Le Nuvole” e si apprestava a caratterizzare anche questo disco. Il collaboratore Mauro Pagani proponeva infatti sonorità legate al bacino mediterraneo che spaziassero dalla Liguria alla Grecia, tuttavia la sua visione si scontrava parzialmente con quella di Ivano Fossati, con cui Faber lavorò a quattro mani per la realizzazione di questo disco e che è co-autore di tutti i brani. Egli era più teso verso le musiche provenienti dall’area sudamericana, che De André apprezzava.
Il risultato finale fu però una miscela tra le due correnti geo-musicali e per rafforzare questa formula la produzione fu affidata a Piero Milesi, che curò anche testi e arrangiamenti. Dall’unione dei quattro artisti sono sgorgate nove gocce di world music brillante, che si plasmano in un’attraente viaggio dell’anima tra i Balcani e le Cinque Terre, tra la foresta amazzonica e la macchia mediterranea. Importante è inoltre la presenza nell’intero disco di Naco, alias Giuseppe Bonaccorso, che suona un vastissimo numero di percussioni (woodblock, conga, talking drum, solo per citarne alcune) che contribuiscono a dare un tipico imprinting tribale alla linea ritmica. Il musicista morì in un incidente stradale poco prima della pubblicazione del disco, e nel booklet gli viene rivolta una doverosa dedica.
De André è una sorta di Alessandro Manzoni del cantautorato italiano: nelle sue composizioni mette sempre al primo posto gli umili, gli emarginati, i vinti perchè la bellezza degli sconfitti supera la fierezza di qualsiasi vincitore. Questo disco non fa eccezione: le vicende narrate sono vissute da personaggi che potremmo definire reietti, rifiutati da una società chiusa e da un’umanità grottesca che non ha ancora compreso la propria piccolezza nei confronti del tempo e dello spazio.
Così l’incipit è programmatico: “Prinçesa”, tratta dall’omonimo romanzo di Fernanda Farias de Albuquerque, racconta di un giovane contadino brasiliano che abbandona la campagna per inseguire il suo desiderio di femminilità e tra operazioni chirurgiche e fisiche riesce finalmente nel suo intento, diventando così un transessuale. Le scene sono descritte con grande crudezza e sottolineate da Faber che le canta con voce aspra e ritmica incalzante; emblematica è sicuremente quella in cui Fernandinho (così si chiama il protagonista) viene penetrato a turno da più uomini alla luce degli abbaglianti dei fari delle macchine, mentre la madre si strugge perché per lei il figlio maschio è ormai morto mentre la nuova figlia femmina non è altro che “una bambola di seta”. La conclusione avviene a Milano, dove Fernandinho vive insieme ad un avvocato regalandogli corpo e cuore; è impressionante pensare che quello che a noi sembra uno sfruttamento, una vita sospesa e abusata da troppo tempo, per qualcuno possa essere invece la realizzazione definitiva di un sogno. Sorprendente la conclusione, che si presenta in cori gioiosi recitati proprio in portoghese brasiliano.
Il suono pieno e potente che caratterizza questo brano lo ritroviamo poi in “Dolcenera” e “Â Cúmba”, quest’ultima cantata con Ivano Fossati; le due canzoni hanno anche in comune l’uso del dialetto genovese, la prima nei cori femminili e la seconda nell’intero testo.
“Dolcenera” è una canzone in qualche modo controversa: dipinge infatti la situazione dell’alluvione di Genova nel ’70, all’interno della quale inserisce il personaggio di un innamorato non corrisposto il cui sentimento arriva ad un’intensità tale da convincersi di essere al fianco dell’amata anche se lei non è presente, in una passione folle scandita dalle immagini dell’acqua che penetra ovuqnue violando ogni spazio. Neanche quando l’alluvione finisce lo sventurato riesce a riprendersi dalla sua fantasia e rimane perso in “quell’amore dal mancato finale, così splendido e vero da potervi ingannare”; una netta melodia di fisarmonica accompagna il racconto nel brano e ne sottolinea i passaggi.
“Â Cúmba” vive invece di un’atmosfera gaia e splendente, tra i cori e le chitarre che arrivano come raggi di sole sulla linea melodica, e anche il dialetto fa la sua parte; ma è solo un inganno, perchè la storia raccontata è ancora una volta incrinata dalla disperazione silenziosa, stavolta di una sposa che dopo essersi maritata con mille speranze finisce per trovarsi da sola in casa mentre il marito è fuori a divertirsi.
In generale, però, in questo disco De André predilige parti strumentali più tenui e scarne, pensate come precise pennellate di acquarello volte a riempire lentamente la tela con il quadro di una canzone. E non c’è colore fuori posto, qui. Tutto è calibrato in maniera ineccepibile eppure così naturale che anche il più piccolo ritaglio sonoro si inserisce nel tema principale con perfezione spontanea. Inutile negare però che gli episodi che colpiscono più profondamente siano quelli maggiormente riflessivi, quelli dove testo e musica si fondono in una sola anima.
“Khorakhané (A Forza Di Essere Vento)” ne è il perfetto esempio: è la dedica, reale e appassionata, che Faber intitola al popolo Rom dal quale era profondamente affascinato, per la loro totale libertà e perché, come disse lui stesso, “Sarebbe un popolo da insignire con il premio Nobel per la pace per il solo fatto di girare senza armi da 2000 anni”. Massima delicatezza musicale: una sommessa chitarra acustica, tastiere rarefatte, giusto una comparizione di fisarmonica. Ma poi ci sono gli archi: quegli archi sublimi che accompagnano il flusso poetico del Maestro, quasi doloroso nel suo svolgersi tra i ricordi delle guerre (“I figli cadevano dal calendario / Jugoslavia, Polonia, Ungheria / I soldati prendevano tutti / E tutti buttavano via”) e la trista condizione a cui oggi è spesso soggetta questa etnia (“Ora alzatevi, spose bambine / Che è venuto il tempo di andare / Con le vene celesti dei polsi / Anche oggi si va a caritare”) ma la cui povertà e soprattutto il modo di viverla sono vissuti come pregi unici (“Lo può dire soltanto / Chi sa di raccogliere in bocca / Il punto di vista / Di Dio”). Quegli stessi archi che, dopo la stupenda conclusione appena citata, salgono ancora e ancora, fino a un picco altissimo da cui si irradia la voce di Dori Ghezzi, che declama con grande bravura vocale una parte in dialetto romeno, il romanì; i suoi acuti si lanciano sul mare in tempesta della musica e rendono un’emozione fortissima.
La gemella di questa canzone è probabilmente “Ho Visto Nina Volare”, non fosse che per la stessa atmosfera crepuscolare che le avvolge. Il tema è infatti completamente diverso, qui si parla di una ragazza (probabilmente un’amica d’infanzia di De André) che si trova costretta a trattenere la voglia di fuggire lontano dal padre. Le percussioni sommesse costituiscono un incedere dolce magnificato dagli inserti di chitarra e pianoforte.
Altra coppia ideale di brani è “Le Acciughe Fanno Il Pallone” e “Disamistade” (parola sarda che significa “malevolenza”, “avversione”), poste tra l’altro in successione: in entrambe infatti il tema è scandito dalle corde della chitarra su un tappeto minimo di percussioni.
“Disamistade” tratta appunto delle faide d’onore presenti nelle famiglie patriarcali di alcune zone del Mezzogiorno italiano, verso cui Fabrizio esprime la sua contrarietà (“Si accontenta di cause leggere la guerra del cuore”); allora la musica si carica di secco e inquietante dramma, in un’atmosfera sospesa che fa intuire come il fenomeno non abbia fine e continui a dare morte sotto l’ingombrante peso dell’orgoglio.
“Le Acciughe Fanno Il Pallone” parla dell’occupazione solitaria di un pescatore che vede i pesci saltare fuori dall’acqua in banchi compatti, come indica l’espressione genovese del titolo. Testo affascinante e ritmica quasi indolente ma ricca di suggestioni, la canzone si chiude con un altro “finale a sorpresa”, stavolta consistente in una esplosione etnica di tipica matrice sudamericana. Si potrebbe dire che nella prima la musica è macchiata di sangue e nella seconda increspata di sale.
Nel complesso l’impronta di Fossati è presente ed evidente nei tratti di tastiere, negli stacchi strumentali che sembrano sorvolare l’orizzonte musicale e in gran parte delle linee armoniche; basterebbe confontare quest’album con “La Pianta Del Tè” dello stesso Fossati per riconoscere tutte le similarità tra i due stili. Oltre alla già citata “Â Cúmba”, i due cantautori genovesi intrecciano le loro voci anche nella title-track, che è al contempo il brano di più marcata matrice fossatiana; un intreccio di tastiere maestose e percussioni, sempre brillante e senza cedimenti, su cui la commistione delle due parti vocali risulta come una ruvide dolcezza. A questo punto però arriva la chiave di lettura dell’intero disco: le anime di cui si parla non devono essere giudicate “salve” nel senso di “messe in salvo”, ma nel significato che sta all’origine dell’etimologia della parola e cioè “sole”, “solitarie”. Sì, perchè “Anime Salve” è un album sulla solitudine; un concept, se vogliamo.
Tutti i personaggi di cui si parla nei rispettivi pezzi sono in qualche modo soli: l’amante illuso che pur creandosi una realtà immaginaria resta comunque lontano dalla sua amata, la sposa che rimane in casa a piangere e a chiedersi se non abbia fatto uno sbaglio a scegliere proprio quell’uomo come suo marito, il pescatore che è solo in mare ed è solo anche quando torna a terra ed è ignorato dalle passanti, i nomadi che nei loro viaggi possono contare solo su se stessi. Ma la solitudine, termine che ormai ha assunto un’accezione totalmente negativa. qui viene celebrata in quanto strumento di lotta: essa permette infatti di staccarsi dalla massa e dal predominio delle maggioranze, e di crearsi una propria strada, unica e indelebile, da seguire con convinzione e coraggio. Solitudine come sinonimo di libertà; ed è proprio per questo che tutti gli emarginati appartenenti alla poetica di De André alla fine sono futuri vincitori, appunto perchè soli e in quanto tali liberi da ogni condizionamento e vincolo, artefici del proprio destino. Il discorso ha un tono universale: esiste infatti un essere umano che non si sia veramente mai sentito solo, lasciato in disparte in un qualsiasi momento della propria vita? Ecco allora che l’isolamento, voluto o subito che sia, diventa un’occasione unica ed esclusiva per riscattare se stessi da ogni imposizione della normalità.
Tutto questo è racchiuso nella canzone che chiude il disco e la carriera di Faber, il suo vero testamento artistico: “Smisurata Preghiera”. È il brano che riassume tutte le correnti musicali presenti nelle tracce precedenti e le imprime in una limpida testimonianza finale, con la firma del doloroso assolo conclusivo eseguito alla tastiera da Riccardo Tesi; il testo, poi, è un distillato di tutti i temi che De André ha affrontato in tanti anni, dall’eterno amore per i vinti e i deboli all’invocazione al divino, a cui viene chiesto proprio di concedere a tutti i “fuoriusciti” una possibilità di riscatto, di rivincita sulle maggioranze da cui si sono affrancati. Una richiesta impossibile, troppo grande per la realtà in cui viviamo, ed è proprio per questo che la preghierà è “smisurata”; però è presente, più viva che mai, e nessun cuore potrà mai rimanere indifferente a quelle parole, che sono un inno alle scelte di vita, una glorificazione per chi lotta, un invito a non arrendersi:
“Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
Col suo marchio speciale di speciale disperazione
Fra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi
Per consegnare alla morte una gocca di splendore…
Di umanità
Di verità…”