#TellMeRock, i 33 anni di Vulgar Display Of Power: l’evoluzione del metal secondo i Pantera

EDITORIALE – Il mio primo impatto con il metal più duro, fu un live del 1991 svoltosi a Mosca e con protagonisti i Metallica, Ac Dc, Pantera, Queensrÿche e The Black Crowes.

Il metal è per antonomasia la traduzione della durezza in musica.Tutti i generi e sottogeneri attinenti al metallo non possono fare a meno di elevare la durezza e la ruvidezza a loro fondamentali caratteristiche; e c’è un’intera storia di ricerca sonora per cercare di creare il sound più violento, più aggressivo, più brutale: aumentando la velocità, la graniticità, la distorsione dei riffs; iperbolizzando i ritmi; sfregiando il cantato con l’assalto liberatorio e primitivo delle urla.

Generi come il grindcore e le frange più deviate del black metal testimoniano come il metal possa inscenare le più atroci e devastanti proiezioni dell’anima, arrivando talora al limite dell’ascoltabile. Eppure già dopo quel live è quindi nel 1992, un gruppo di agitatori texani aveva trovato la perfetta trasposizione musicale della durezza, intesa nel senso più pieno del termine, usando una formula ben diversa: attingere dalla grande lezione thrash di MetallicaSlayer e Anthrax e personalizzarla in una versione potenziata da riffs stoppati e poi improvvisamente rilasciati a muso duro, cantato di inaudita potenza e ritmiche pressanti e infernali. Ovvero: Dimebag DarrelPhil Anselmo e Vinnie Paul. I Pantera, più precisamente.

Vulgar Display Of Power, pubblicato il 25 febbraio di trentatrè anni fa, è il disco che dà origine al genere groove metal (che tanta influenza avrà poi per il nu-metal) e allo stesso tempo lo sublima e si pone come importante pietra di paragone per i gruppi a venire.

È chiaro fin dall’apertura che qui si fa la rivoluzione: i primi due pezzi, Mouth for war e A new level (peraltro della stessa durata) mostrano il legame con il thrash, ma allo stesso tempo appaiono nuovi, diversi, quasi alienati dal panorama metal contemporaneo, con i perfetti incastri tra chitarra e percussioni.

Sarà l’effetto della voce di Anselmo, che pare essere sommersa dai muri di chitarre per riemergere ogni volta con più rabbia; sarà l’impressionante tecnica di Darrell, che soprattutto nella seconda traccia fa davvero paura.

Fatto sta che si è partiti, e da qui non c’è più scampo. Subito dopo infatti arriva a martellare i timpani quello che è considerato il più grande inno della formazione americana, Walk. Ritmica marziale e pesante, la voce graffiante che stavolta svetta nettamente, i colpi ipnotizzanti di chitarra, un ritornello troppo potente per non essere urlato e un fantastico assolo; gli elementi per il capolavoro ci sono tutti.

Nemmeno il tempo di riprendersi dall’oscura suggestione di questa canzone che ci si viene travolti dalla bomba al fulmicotone che risponde al nome di Fucking hostile. Canzone davvero “fottutamente ostile”, dove il metal si imbastardisce con le influenze hardcore-punk tanto care ad Anselmo e quel che ne esce è un vero e proprio treno in corsa dalla velocità forsennata; e quando scatta l’urlo-growl sfregiato che ripete il titolo, è carta vetrata sulla pelle. Il ghiaccio è rotto, il groove metal esposto in prima linea: nella seconda parte del disco quindi i Pantera cercano di distaccarsi ancor di più dalla tradizione unendo alla devastante attitudine sonora una ricerca di nuovi schemi formali.

Così saltano fuori No good (attack the radical) con un cantato prima catacombale e poi simil-rap; Live in a hole, con la chitarra satura di distorsioni, accompagnata dal basso possente a disegnare fosche ambientazioni metalliche; Regular people (conceit), cavalcata inarrestabile per Anselmo che prima si esibisce in una specie di lugubre strofa al limite dello spoken-word e poi esplode in aggressivi acuti.

By demons be driven è un brano pesantissimo che deflagra con un refrain davvero demoniaco. Ma l’acme delle sfuriate marchiate Pantera è senza dubbio Rise: l’apice della violenza del disco, così compressa e dura, pervasa da una rabbia tanto travolgente e netta, da un furore tanto inarrestabile nel crescendo della canzone da lasciare storditi e contemporaneamente spingere il tasto “ripeti” sul lettore cd.

Pantera, intelligentemente, contrappesano questa piccola apocalisse con brani più leggeri che fanno rifiatare l’intero disco: This love, circa a metà dell’album, che si trascina anch’essa pesantemente ma con il sostegno della melodia; e la splendida Hollow (notevole anche il testo), portata in paradiso dagli assoli lucenti di Darrell e da un Anselmo che appende al muro la veste della rabbia per indossare quella, ancora più viscerale, della disperazione e dell’abbandono.

Due momenti sicuramente più lievi, che fanno penetrare un po’ di chiarore nella cupezza del disco; ma non per questo i ritmi più lenti e le linee sonore meno brutali infiacchiscono il disco (anzi, entrambi i brani alla fine sfociano nel ben noto suono Pantera), semplicemente arricchiscono il disco alla stessa maniera in cui in un quadro per definire alla perfezione le ombre c’è necessariamente bisogno della luce. 

Vulgar Display Of Power rimane una vera “botta” così com’è: tirato, violento, rabbioso, aggressivo, schiumante di rabbia. D’altronde siamo avvisati già dalla copertina, qui si prende un tremendo pugno in faccia; e il bello è che piace da morire… anche dopo oltre trent’anni.

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