#TellMeRock: i 45 anni di Boys Don’t Cry e le insoddisfazioni ‘arabeggianti’ di Robert Smith

EDITORIALE – Chris Perry è un produttore che ha deciso di fare il triplo salto. “Basta lavorare al servizio degli altri”, tuonò un giorno, e così fondò un’etichetta: la Fiction.

Non appena si è sparsa la voce, sono cominciati ad arrivare demo a grappoli e lui non sa più come fare. Tra l‘altro, fondare un’etichetta significa assumersi mille responsabilità e centomila noie burocratiche. Mentre è sulla scrivania a compilare fogli e leggere pratiche, ascolta i demo: ma non sono niente di che, la solita roba.

Eppure siamo nel 1978, il punk dovrebbe aver insegnato qualcosa. Poi all’improvviso arriva un “gocciolio”…dip dip dip dip dip dip. Chris Perry alza la testa, si ferma e va a leggere il nome della band. The Cure, la Cura…non male come nome.

Il riferimento per la band è un certo Robert Smith, Perry lo chiama e si fa spiegare cosa significhi il titolo della traccia, che segnava un orario e un giorno: 10:15 Saturday Night.

“L’ho scritta alle 10:15 di un sabato sera, avevo 16 anni. Aspettavo che il telefono squillasse, ma non accadeva mai, il rubinetto perdeva e io mi sentivo uno straccio. Bevevo la birra di mio padre e la mia vita andava sempre peggio… tutto qui!”.

Tutto qui? Quelle parole di Robert Smith estasiarono le orecchie di Chris Perry che mise sotto contratto i Cure, 10:15 Saturday Night fu pubblicata come lato B di Killing An Arab ed entrò a far parte di Three Imaginary Boys.

Il rubinetto di Robert Smith continuava a perdere, ma quel suono cominciò a essere diverso da tutto il resto.

Three Imaginary Boys è un album che sin da subito diventa un must nel panorama musicale britannico, ma Robert Smith non è per niente soddisfatto della track list e così, approfittando della pubblicazione in America del suddetto esordio, approfittarono per operare qualche cambiamento. In primo luogo, ovviamente il nome. Nuove tracce vengono inserite, altre omesse. Fra le altre, fa qui capolino la famosa già citata“Killing an Arab”, che causerà al gruppo accuse anti-islamiche (niente di più ridicolo, dato che il richiamo è all’esistenzialismo di Camus e al suo “Straniero”).

E’il 5 febbraio del 1980 e i Cure pubblicano il loro Boys Don’t Cry.

Proprio la title track rimarrà come un dei brani maggiormente conosciuto dei Cure, con la sua melodia accattivante, spinta da un ritmo ballabile. Al Qube di Roma, era un pezzo obbligatorio da inserire al terzo piano. Non è però il ritornello, originale ma non così spettacolare dopo tutto, a colpire nel segno, quanto le liriche, permeate di una poesia adolescenziale tanto “romantica” quanto spontanea. Il classico testo da dedicare alla persona amata insomma, e chissà che il pezzo non abbia un legame con la telefonata mai arrivata della suddetta 10:15 Saturday Night.

Boys Don’t Cry racconta la storia di un ragazzo che ha perso la speranza di riconquistare l’amore perduto di una ragazza e prova senza riuscirci a nascondere le proprie emozioni perché, come dice il testo scritto da Robert Smith: “I ragazzi non piangono”. «Al tempo eri costretto a non mostrare alcun tipo di sentimento o debolezza, ma io da giovane non potevo fare a meno di esprimere ciò che provavo» ha detto Robert Smith «Non ci ho mai trovato niente di imbarazzante, se non mostri te stesso diventi un cantante noioso».

Un brano che è diventato la dichiarazione di un genere musicale che prenderà il nome di “dark” ma anche di un’idea di musica come sensazione condivisa e rivendicazione di un modo di essere diversi in una società rigida come quella inglese di fine anni ’70. Ma quando i The Cure hanno cantato Boys Don’t Cry sul palco del Pyramid Stage di Glastonbury 2019, 40 anni dopo, Robert Smith ha realizzato quanto sia diventata una canzone senza tempo: «Era incredibilmente contemporanea» ha detto in una intervista a Rolling Stone ripresa dal magazine Ourculturemag, «La pressione di conformarsi ad un modo di essere non è mai cambiata».

The Cure sfatano il mito dell’invulnerabilità maschile, ironizzano su quanto quello stereotipo (“i ragazzi non piangono”) sia radicato e costruiscono un mattone dello spirito dark, un modo di mettere in musica le sensazioni negative create da qualsiasi tipo di repressione, emotiva, sociale o di genere.

Un impatto culturale importante per una canzone pop lunga solo due minuti e mezzo, ma i The Cure nel 1979 anche se sono esordienti sono già una band consapevole e ispirata: «Silenziosamente arroganti» come ha detto Robert Smith in un’intervista del 1987, «Non ero arrogante come Morrissey, ma convinto di quello che stavo facendo, nonostante la mia timidezza». Gli elementi che rendono Boys Don’t Cry così importante anche dopo oltre 40 anni sono il testo profondo in contrasto con la musica leggera («Il pop non è mai stato una brutta parola per i The Cure» ha detto il bassista Lol Tolhurst) che accentua il tono ironico e la capacità di Robert Smith di creare con poche strofe una scena quasi cinematografica in cui chiunque la ascolti finisce per immedesimarsi con il protagonista e la sua sensibilità. Non a vaso, nella prima recensione fatta da Rolling Stone USA di Boys Don’t Cry del 1980, uscita nell’edizione americana del primo album dei The Cure, Three Imaginary Boys, si legge: «Se Robert Smith dovesse mai decidere di lasciare il rock&roll, ha davanti a sé una grande carriera come sceneggiatore di film»

“Killing an Arab”, con la sua melodia desertica (resa genialmente tangibile nel video, girato in un luogo desolato, ma ghiacciato, non assolato come ci si potrebbe attendere) si candida a capolavoro del disco; Smith canta con tono secco e distaccato, da discepolo devoto di “Camus”, su un paesaggio sonoro fantastico, lontano, stordito e onirico. Chitarra e basso si superano stavolta, soprattutto quest’ultimo, con un giro assolutamente memorabile e Michael Dempsey inizia a salire sugli scudi, prendendo per mano le sonorità che caratterizzeranno anche i Cure del futuro.

Sullo stesso livello si mantiene anche “Fire in Cairo”, la cui sfortuna è di non poter contare dell’effetto sorpresa della sopracitata, essendo stata pubblicata tempo prima. La falsariga è sempre quella “araba”, tuttavia il contenuto è all’insegna dell’eros, sfrenato ed appunto “infuocato.

Le notti di Oriente e l’adolescenza già dark di Smith che vengono fuori, per un punk che potremmo dire si apre verso Est, con sonorità nuove e rimarcate, da cui prenderanno spunto in parte anche i Clash per la loro Rock The Casbah.

Già “Accuracy” introduce la componente esotica del disco, con continui echi di musica araba, o per meglio dire “arabeggiante”, con la sua andatura cadenzata e trascendente. Poi arriva Jumping Someone Else’s Train che, come suggerisce il titolo, è un ballabile ferroviario, con un eccellente lavoro di Dempsey al basso, stavolta protagonista.

E’ il mondo reale visto dai Cure, fatto di insoddisfazioni artistiche ma anche sentimentali e sociali. Una miscela di sentimenti che però crea un capolavoro come appunto Boys Don’t Cry, album cult dell’intero patrimonio musicale mondiale, tanto che, nel 2003, l’album è stato posizionato al numero 442 nella lista dei migliori 500 album di sempre redatta dalla rivista Rolling Stone.

45 anni e non sentirli, ma per fortuna, noi ascoltatori devoti, lo ascoltiamo ancora benissimo…

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