EDITORIALE – Se il disco d’esordio dei Cure, pur gradevole, poteva essere ritenuto eccessivamente frammentario e/o discontinuo, Seventeen Second, pubblicato il 18 aprile del 1980, è l’esatto contrario, un monolite di colore grigio scuro dall’inizio alla fine. Con un Robert Smith ormai nel pieno delle sue facoltà tecnico intellettive, alla vigilia delle recording sessions la strada da percorrere era già tracciata: nessuno tra i piedi nella control room, eccezion fatta per il sound engineer Mike Hedges accreditato poi come co-produttore, un nuovo bassista dall’attitudine tetro-melodica come Simon Gallup, l’innesto di un tastierista con ordini precisi di non suonare mai più di una nota alla volta, per un sound scarnificato al massimo.
Smith nel febbraio del suddetto anno entra in studio con in mente due precisi modelli di riferimento, Five Leaves Left di Nick Drake e Low di David Bowie. Se le assonanze con Drake si limitano alla rievocazione di un certo mood fosco, malinconico, quelle con l’album di Bowie sono leggermente più tangibili: suoni puliti e limpidi, uso stringato delle liriche, spazio a brani strumentali dalle atmosfere funeste.
Proprio l’austero requiem di A Reflection apre l’album, tocchi minimali di piano e chitarra da ascoltare con le spalle al muro.
A seguire uno dei brani cardine non solo per il futuro dei Cure ma per la new wave tutta: Play For Today, ritmo incalzante e un giro di basso che diverrà marchio di fabbrica, un highlight praticamente onnipresente nei tour a seguire fino ai giorni nostri.
In Secrets è notte fonda, solamente due accordi per l’intera durata del brano (uno minore ed uno maggiore): le tracce vocali di Smith sono due e fuori sincrono, la prima sui registri bassi ha lo stile asettico di un automa; la seconda sui registri alti, sembra provenire dagli inferi più orrorifici, per un effetto finale minacciosamente straniante.
In Your House, perla indimenticata, si avvale di un altro dei pregevoli giri di basso di Gallup, un refrain che si fonde perfettamente con i dolorosi simil-arpeggi di Smith.
M, dedicata dal leader dei Cure alla compagna Mary, i toni malinconici si aprono ad un “rock” più ortodosso: ma è solo un fuoco di paglia.
At Night riporta il disco su tonalità gothic e dark wave, la batteria marziale di Lol Tolhurst, il basso distorto, le tastiere ecclesiastiche, per uno dei brani più tenebrosi dell’intera carriera della band britannica.
Tentare di stabilire quale sia il miglior album dei Cure senza scontentare nessuno è impresa ardua: i due lavori che seguiranno saranno per certi versi ancor più gothic-oriented, qualcuno preferirà addirittura il colpo di coda di Disintegration. Resta il fatto che la famosa trilogia dark di Smith e soci parte da qui, senza dimenticare che Seventeen Seconds contiene il brano più celebre dei Cure pre-1985. A Forest è l’opera che esprime il massimo grado di qualità dark-pop: un oscuro fluire di basso fascinosamente ipnotico e la chitarra carica di flanger di Smith che affannosamente si fa largo tra gli alberi per rincorrere una figura che in realtà non esiste, se non nella sua testa.
Benché separati da un solo anno, la distanza tra il debutto e Seventeen Seconds è immensa. Il secondo album dei The Cure trova il perfetto equilibrio fra la delicatezza di un suono rarefatto e cangiante e l’intensità della paletta di emozioni che lo compongono: inquietudine, malinconia, vivacità, asetticità, alienazione, freddezza.
È incredibile quanto una composizione tanto minimalista possa dare vita ad un insieme così pieno e intenso. Mentre i Joy Division esprimono un nerissimo nichilismo senza uscita, i The Cure lasciano talvolta emergere un feeling leggero, suadente, ma capace di mutare rapidamente in angoscia e terrore. Il tutto ammantato da un velo di una grigia ed ineluttabile malinconia. Gothic rock, dark, new wave, poco importa il nome. Seventeen Seconds è uno dei picchi assoluti di questo movimento, un capolavoro della Musica tutta.
Come diceva un vecchio saggio: angoscia e tormento possono condurre, talvolta, al piacere.