#TellMeRock, i 45 anni di “The Man Machine”, il capolavoro dei Kraftwerk destinato a fare storia

EDITORIALE – Si, i Kraftwerk sono tra le band più importanti del Novecento, insieme a, per originalità ed inventiva, a mostri sacri come Pink Floyd e Beatles. Sono stati essenziali perché hanno sintetizzato la tradizione musicale antecedente, da Bach a Stockhausen, e, dopo una breve ma decisiva comparsata nel mondo del rock, hanno dato vita al suono nuovo: l’elettronica. Nella storia dell’uomo non c’è stato secolo più cangiante del ‘900. Il mondo agricolo è diventato industriale, la cultura popolare è diventata arte, le necessità quotidiane sono diventate accessorie, gli stati sovrani si sono affrontati in duello e poi amorevolmente abbracciati, i sessi hanno rotto le catene, le ideologie hanno dato il meglio e il peggio di loro, la cultura ha vissuto momenti di profondo buio ed apici di florida magnificenza. Tutto e il contrario di tutto. I quattro geni di Düsseldorf hanno pensato bene di mettere in musica questa società tecnologica e mutevole portandola all’estrema e logica conseguenza: la disumanizzazione.

“Die Mensch-Maschine”, occidentalmente conosciuto come The Man Machine, 45 primavere compiute lo scorso 19 maggio, è un capolavoro proprio per questo. Le note sprigionate non provengono più dagli strumenti ma dagli apparecchi elettronici, sostituitisi all’uomo perché migliori, più razionali, privi di umore ed istinto, più dinamici. “Die Roboter” è la fredda poesia di automi in movimento solenne, adunata di uomini-macchina pronti a muoversi in coro. “Spacelab” è invece il laboratorio spaziale dove i robots costruiscono ex novo le proprie appendici: nel nostro caso apparecchiature di sintesi sonora, sintetizzatori vocali e drum machines. Tutto è nuovo qui, inascoltato, moderno, talmente moderno da apparire futuristico.

“Metropolis” vagheggia di città in fermento perenne, con automobili volanti e palazzi automatizzati, una città in cui l’urbanistica non è né caotica né tantomeno a misura d’uomo ma incentrata sulla produzione. Si capisce benissimo che gli esseri umani hanno fatto il tempo loro: adesso è tempo di passare il testimone alle macchine. Il pezzo è dedicato al film omonimo di Fritz Lang.

Con “Das Model” entriamo nel discorso culturale – e citazionistico – che vuole oggetti, arti e persone quali meri prodotti di consumo, in un’economia che crea bisogni per assecondare la sua sete di crescita, una società che fagocita i suoi prodotti per produrne di più appetibili.

D’altronde, “Neonlicht” è la malinconia analogica di chi guarda la città occidentale invasa dai neon come una serie di luci folgoranti che riempiono gli occhi di brillanti; in questa traccia lo stupore verso il nuovo mondo suscita un’asmatica ansia sul futuro stesso delle vite umane, riducendo le nostre prospettive a funzionali richieste della macchina madre.

 Infine la title-track esalta in un fondamentalismo senza eguali l’uomo-macchina, mettendolo sull’altare del Duemila, simulacro di una razza superiore che ha creato sulla Terra la perfezione tecnologica e che può quindi fare a meno della perfezione di Dio. Al pari dell’elogio v’è la critica: difatti la nuova razza è al contempo semiumana perché ha perso i caratteri fondanti la superiorità tanto ostentata.

È grazie ad onorevoli personalità come Ralf Hütter, Florian Schneider-Esleben, Karl Bartos e Wolfgang Flür che la musica di oggi è ancora viva e vegeta, ricca di stimoli e contaminazioni, pronta a nuovi e sconosciuti incontri, libera. “Die Mensch-Maschine” ha aiutato il mondo a non privarsi di nulla, a credere nel progresso tecnologico e nel raziocinio, ma ci ha anche allertati sui pericoli derivanti da troppa automazione. Se davvero si vuole una generazione di uomini migliori, bisognerà saper fondere sviluppo ed umanità, scrupolo e volontà, produzione e solidarietà. Ascoltate l’ultimo lavoro dei Depeche Mode o rispolverate qualche disco dei loro esordi e capirete quanto i Kraftwerk siano stati decisivi per il genere e per la storia della musica.