EDITORIALE – Gli appassionati della iconica serie televisiva “I Simpson” sono ormai da anni abituati al fatto che le puntate si svilupperanno da un evento secondario e del tutto slegato rispetto alla storia che seguirà. Un espediente molto interessante e tutto sommato originale, che ci introduce a considerazioni più “alte”, riguardo appunto alla catena dei piccoli eventi che conducono ai punti nodali nello svolgimento della nostra vita e addirittura della Storia, che restano in realtà spesso nascosti e sconosciuti, mentre si pretende di far risalire tutto a uno schema razionale, a “grandi linee”.
Mettendo ciò in ambito musicale e parlando di un album gigantesco come Songs from the Wood, uno dei punti nodali della carriera di una band enorme come i Jethro Tull, ecco quindi che nella narrativa di genere si considera questo come il primo di un trittico di album nel quale il gruppo si spinge in maniera diretta verso lidi folk rock, abbandonando in parte la lunga sequenza di concept album di stampo propriamente progressive che da Aqualung in poi aveva caratterizzato la produzione del gruppo inglese. Come se, appunto, l’ispirazione fosse un qualcosa di pianificabile a tavolino, un qualcosa che può essere direzionata dal nulla. Un giorno ti addormenti “progster,” il giorno dopo ti svegli “folkster”.
Chi compone e suona sa che le cose non sono mai così facili e immediate. Diremo quindi che gli eventi secondari che porteranno a Songs from the Wood, e quindi anche agli altri due album successivi, sono molteplici: anzitutto, la collaborazione di Anderson e di altri membri dei Jethro Tull ai dischi di artisti che saranno propriamente definiti folk, come gli Steeleye Span e i Fairport Convention, oltre all’amore mai sopito per i classici Bert Jansch e Roy Harper, che per forza di cose influiranno sulle concezioni musicali di un compositore sensibile come Anderson. In seconda battuta, diremo che anche la piega musicale presa dalla band era probabilmente arrivata a una sua naturale conclusione, con album che da tempo non ricevevano più un plauso unanime, mentre sia War Child che Too Old to Rock’n’Roll, Too Young to Die erano invece andati incontro a diverse critiche e a un successo di pubblico inferiore ai precedenti; in terzo luogo, arriverà il gradito regalo da parte del manager Jo Lustig del libro “Folklore, Miti e leggende della Bretagna”, che influenzerà moltissimo Anderson; infine, dopo il doloroso divorzio che aveva segnato la scrittura di Minstrel in the Gallery, lo stesso Anderson trovò la forza di sposarsi nuovamente e comprare una grande magione nella campagna, nella quale si trasferirà e passerà diversi mesi in ritiro, contemplando la natura inglese e riflettendo. Un insieme di fatti che porteranno quindi a una piccola quanto significativa rivoluzione nella scrittura del musicista, tanto dal punto di vista musicale, quanto da quello lirico.
Quando il ritiro finì, Anderson richiamò a sé la band, chiudendosi in studio per circa un mese. L’arrivo in pianta stabile di un nuovo tastierista/pianista, nella persona di David Palmer, fu una novità importante e il background classico del nuovo entrato piacerà molto al leader dei Jethro Tull che, forse per compensare un po’ la propria proverbiale tirannia, aumentata dalla decisione di occuparsi direttamente della produzione, lasciò proprio a Palmer largo spazio nella composizione degli arrangiamenti dei brani. Spazio che anche Martin Barre troverà il modo di occupare, andando a rivestire un ruolo importante nelle composizioni di Songs From the Wood, uscito poi l’11 febbraio del 1977.
Parlando di “folk rock” negli anni settanta, si potrebbe immaginare che il nuovo album fosse costituito da ballate e canzoni di protesta, alla Woking Class Hero. Niente di più sbagliato, in effetti: Songs From the Wood, il cui titolo intero è With Kitchen Prose, Gutter Rhymes and Divers – Songs From the Wood, già dalla copertina, vuole invece portare l’ascoltatore in un arcaico tributo alla tradizione medievale inglese, con tanto di flauti, Glockenspiel, strumenti acustici, organetti medievali, mandolini, armonie vocali dal sapore antico, miti e leggende del folklore campestre, tra elfi, fate e spiriti, l’Uomo Verde e i riti pagani antichi. Soprattutto, è un disco di ispirazione folk, ma assolutamente uno degli album più propriamente definibili come prog dell’intero catalogo dei Jethro Tull e questo lo si percepisce fin da subito: seppure i brani siano più diretti e tutti forniti di refrain identificabili e marcati, gli arrangiamenti sono molto complessi, ricchissimi di variazioni e con un utilizzo continuo di una moltitudine di strumenti. Lo spazio “concesso” da Anderson agli altri musicisti si risolve spesso in fughe e continui interventi che donano colore e atmosfera alle composizioni, come fossero un gioco di specchi che cambiano la prospettiva o porticine che si aprono su piccole stanze segrete, l’una dietro l’altra, lungo il percorso. E’ così che uno degli album più coerenti del gruppo, possiede al suo interno brani che passeranno alla storia come la fiabesca Jack-in-the-Green, nella quale Anderson suona tutto da solo e lo spettacolare singolo The Whistler, quanto di più vicino a un brano “commerciale”, eppure macchina a incastro perfetta e irresistibile nel suo refrain cantabile, accompagnato da passaggi strumentali di altissimo spessore, nei quali convivono tempi antichi e tastiere moderne, chitarre acustiche e whistles, oltre al perfetto basso di John Glascock, protagonista ancora non celebrato di tutto l’album.
Vero capolavoro di equilibrio, oggi come allora. Difficile non ritrovarsi a danzare.
Ancora, la natalizia Ring Out Solstice Bells, dolcissima e sognante, sottolineata da campane e tastiere e la veemente Hunting Girl, uno dei classici dal vivo della band, trainata dal tiratissimo giro di Martin Barre e John Glascock, sul quale Barriemore Barlow tira fuori un accompagnamento “da caccia” che sembra rubato al Cozy Powell dei Rainbow, con un arrangiamento che non cessa di rivelare sorprese.
Al tempo stesso, troviamo veri e propri capolavori di folk prog, come la opener e titletrack, la splendida Cup of Wonder o la meravigliosa Velvet Green, uno dei punti massimi della scrittura di Ian Anderson, con una lunga fuga centrale di strumenti acustici, tra flauti, mandolino, naqqara e tamburelli, che ci trascina lontanissimo nel tempo e nello spazio, lasciandoci una malinconia dolcissima per ciò che è stato e più sarà.
Poi arriva la lunga e complessa Pibroch (Cap in Hand), nella quale Barre prova con la distorsione della propria chitarra a simulare il suono delle cornamuse e il gruppo regala un nuovo break strumentale centrale di pura astrazione temporale, tour de force per il flauto di Anderson e proscenio per le tastiere di Palmer e per il grandioso lavoro della ritmica.
A chiusura l’ennesima perla di questo disco, Fire at Midnight, nuovo trionfo strumentale e di arrangiamento: una conclusione dolce e notturna, riuscitissima, che ancora una volta ci trasporta in altri tempi, con un arrangiamento apparentemente semplice e che nasconde in soli due minuti e mezzo una ricchezza che in mano a compositori meno abili sarebbe risultata un guazzabuglio.
Nella ristampa del 2003, che univa Songs From the Wood al successivo Heavy Horses, trovano posto anche due bonus track, Beltane, pezzo in studio che ben si amalgama agli altri, seppure con suoni più moderni, che viene valorizzato dallo spettacolare lavoro di Martin Barre e della sezione ritmica, e la versione dal vivo di Velvet Green, sempre piacevole, ma che a dire il vero qui appare quasi “forzata” e quindi a mio modesto avviso non indispensabile.
Considerando che ci troviamo nel 1977, ovverosia nell’anno che viene normalmente identificato come quello dell’esplosione del punk, potrebbe sorprendere che un disco così particolare, radicato nella tradizione inglese e nell’atmosfera medievale, incontrasse i favori della critica, che ne tributò la grandezza fin da subito in maniera uniforme, e quelli del pubblico, con vendite che certificarono l’apprezzamento per tracce che rimarranno iconiche. In effetti, potrebbe sembrare anche strano che una copertina come quella prescelta potesse piacere, con Anderson vestito alla medievale, intento a pregare mentre prepara il proprio pranzo sul fuoco, nel bosco, dopo una felice caccia, con tanto di selvaggina e cane al proprio fianco.
Eppure, i Jethro Tull sono sempre stati un gruppo fuori dal tempo e forse questa loro splendida caratteristica riuscì comunque a fare breccia anche in quell’anno così particolare. Siamo insomma al cospetto di una vera e propria pietra miliare nella carriera di una delle più importanti band di tutti i tempi, un disco che suona antico e moderno al tempo stesso e che forse oggi può risultare un po’ naive, ma che cela al suo interno una sequenza ininterrotta di capolavori, snocciolati con una naturalezza che appartiene solo ai Maestri e che farà scuola per tanti, compresi i Blackmore’s Night dell’amico Ritchie.
Una felice congiuntura di eventi apparentemente secondari, che permetterà ai Jethro Tull di risollevare la propria carriera, dando vita ad una nuova trilogia, fino a quello che sarà l’evento traumatico dal quale tutto cambierà, con la morte di John Glascock e lo sfaldamento della line up a fine decennio. Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.