#TellMeRock, i 56 anni di The Book Of Taliesyn: come il mondo scoprì il genio dei Deep Purple

EDITORIALE – Era il 1968, e mentre il mondo attraversava un periodo delicato in cui imperversavano movimenti sociali e politici, un altro tipo di mondo, quello della musica, vedeva la nascita di gruppi divenuti in seguito un’icona storica e di fondamentale importanza per il rock. I britannici Deep Purple non erano ancora rappresentativi di ciò, e quell’anno non era altro che il primo per loro sulle scene. La band però, seppur nata da poco, aveva già le idee ben chiare: solo nel primo anno infatti videro la luce ben due album, e questa loro strepitosa proliferazione musicale andò avanti a tali ritmi per -all’incirca- i primi dieci anni della loro grandiosa carriera.
Ai tempi di The Book Of Taliesyn, arrivato in tutta Europa il 24 dicembre del 1968, la band era composta da Rod Evans alla voce, l’istrionico Ritchie Blackmore alla chitarra, Nick Simper al basso, e quei mostri sacri di Jon Lord alle prese con organo e tastiere, e Ian Paice alla batteria. I cinque avevano da poco fatto uscire il loro debut album, Shades Of Deep Purple, che già tanto era stato in grado d’impressionare il mondo intero, grazie soprattutto alla famosissima Hush. Come già in quel disco si era potuto notare, elemento di non poco conto anche in questo nuovo album sono le cover, ben tre su un totale di sette brani: Kentucky Woman di Neil DiamondWe Can Work It Out dei Beatles, e la conclusiva River Deep, Mountain High di Ike & Tina Turner.

Questa volontà di far propri brani appartenenti a grandi artisti, rivisitandoli secondo i propri canoni stilistici, è senz’altro una scelta azzeccata, se non altro per la capacità di trasformarli da brani pressoché “normali” a brani ricchi di un più moderno (riferito a quel periodo) hard rock e di una marcata forma di psichedelia. D’altra parte nei restanti brani si possono percepire in modo chiaro i riferimenti di tipo neoclassico prodotti dalla chitarra di Ritchie Blackmore, nonché la sua grande passione per il periodo medioevale, che si riflette ampiamente in quello stile tutto particolare che ancora oggi lo caratterizza. Ma all’interno di questo disco c’è molto di più; ascoltandolo sembra infatti d’immergersi in un mondo di fantasia e di magia dal quale si fa fatica a voler uscire, e la grandissima capacità dei Deep Purple sta proprio nel legare questi elementi ricchi di fascino a dei suoni hard rock con svariati spunti prog. Magistrali sono i momenti in cui chitarra e tastiere si esibiscono in performance ad alto livello di difficoltà tecnica, mostrando un certo amore per ciò che si può definire come una sorta di “improvvisazione artistica”, assolutamente priva di banalità e leziosità. Tutto quello che producono questi strumenti è effettivamente ciò che di più lontano ci possa essere dai ritocchi in studio di cui molte band purtroppo hanno assoluta necessità al giorno d’oggi per coprire certi immensi “buchi” qualitativi.

Già dalla copertina si possono capire molte cose dello stile del gruppo. A realizzarla fu l’illustratore John Vernon Lord (è solo una coincidenza il fatto che si chiami come un componente della band); egli ha eseguito il suo lavoro basandosi principalmente sul titolo, The Book Of Taliesyn, che si riferisce ad una serie di poemi in lingua gallese risalenti probabilmente al X secolo. Sulla copertina sono presenti una moltitudine di elementi senza -a prima vista- apparente collegamento tra loro, sopra i quali capeggia la scritta col nome del gruppo, oltre a quelli dei suoi componenti. Insomma, l’idea di un disco di per sé già molto particolare c’è tutta.

La canzone d’apertura Listen, Learn, Read On sembra avere la sola funzione d’introdurre l’album, pur non essendo un intro vero e proprio, specialmente in quanto a durata. Presenta comunque già dei buoni presupposti, con un Ian Paice in ottima forma coadiuvato dal buon lavoro di Jon Lord col suo Hammond e da alcune parti di chitarra davvero di grande livello, grazie al solito Blackmore.

Qui la voce di Evans sembra quasi provenire da lontano, grazie al riverbero sul microfono che lo fa sembrare una sorta di narratore esterno. La strumentale Wring That Neck, con Blackmore e Lord che sembrano voler giocare ad inseguirsi, è puro divertimento: continui scambi ed intrecci tra chitarra ed organo uniti ad uno stile tutt’altro che irrisorio, denotano una qualità semplicemente eccelsa.


“Questi ci sanno fare”, avranno pensato tutti all’epoca, e guardate un po’ quanto avevano avuto ragione.
La prima cover, come già detto in precedenza, è Kentucky Woman, originariamente composta da Neil Diamond, e qui proposta in una versione decisamente più hard rock. Senz’altro migliore dell’originale, emerge in particolar modo il sempre ottimo Jon Lord, grazie al quale la canzone assume connotati ancora più apprezzabili. A seguire troviamo una breve parte strumentale, Exposition -ispirata ad una parte della Settima Sinfonia di Beethoven– che prelude (senza dover cambiare canzone, dato che sono ordinate come un tutt’uno) alla seconda cover, ovvero We Can Work It Out dei Beatles (già nel precedente debut album i Deep Purple avevano coverizzato una loro canzone, in quel caso si trattava di Help!). Nell’insieme non si capisce tanto il senso di questa unione tra i due brani, ma tant’è che alla fin fine glielo si può ampiamente perdonare, vista la bontà della loro esecuzione. Anche qui infatti la cover risulta riuscita in tutto e per tutto, e ancora una volta migliorata dall’aggiunta dell’organo, che dona quel lato prog tipico dei primi Deep Purple al frutto delle menti di Lennon e McCartney.

Altro grande momento di magico intreccio strumentale è rappresentato da Shield, un brano portato sui binari della psichedelia, con ritmi ipnotizzanti e melodie conturbanti.

Una vera chicca, uno degli apici assoluti del disco, che se la gioca però quasi alla pari con la seguente Anthem, canzone dai toni dolci e pacati, dove la voce di Evans suona leggera e soave. Verso la metà del brano si trova un’interessantissima variazione orchestrale, musica classica a tutti gli effetti, che si conclude poi riconsegnando il suo spazio alla melodia principale.

La conclusione di questo album è affidata alla lunga cover River Deep, Mountain High, di Ike & Tina Turner; ad introdurla abbiamo questa volta la rivisitazione della ben nota Also sprach Zarathustra scritta nel 1896 dal grande compositore tedesco Richard Strauss. Solo dopo più di quattro minuti ha inizio la canzone vera e propria, ed anche in questo caso vale quanto detto prima, ovvero che questa versione è nettamente migliore e più coinvolgente dell’originale.

Senza nulla togliere agli artisti che i Deep Purple hanno deciso di coverizzare, infatti, bisogna senz’altro specificare come le loro sperimentazioni siano di gran lunga più azzeccate. E di questo bisogna ovviamente rendere merito alle menti geniali che compongono -o hanno composto- questa band: perché con la bravura si può far strada, ma è solo con le grandi idee di tali menti che si può divenire immortali.
The Book Of Taliesyn non è certamente l’album più conosciuto della band inglese, né tantomeno il migliore, ma è qualcosa a suo modo di speciale. E allora, perché non provate ad immergervi anche voi in questa grande realtà? Scoprirete che nel magico mondo della musica ci sono luoghi ritenuti importanti, ma ancora tutti da scoprire.