EDITORIALE – Una delle canzoni più influenti di tutti i tempi, sicuramente nell’ambito della canzone d’autore e sotto certi punti di vista, anche del rock. I Rem ad esempio, ammisero che la loro Hope, (dall’album Up del 1988), era molto simile a Suzanne, ma che se ne erano resi conto solo a canzone ultimata, segno che Suzanne è entrata davvero nell’immaginario collettivo e nel nostro inconscio.
Leonard Cohen, straordinario poeta canadese, la compose dopo un incontro con Suzanne Verdal, moglie dello scultore Armand Vaillancourt, a Montreal. Sono infatti moltissimi, nella canzone, i riferimenti alla città natale di Cohen, dal fiume della chiesa di Notre Dame de Bon Secours, che il cantautore canadese descrive come Our Lady of The Harbour, nostra Signora del porto, perchè si affaccia sulle acque di Montreal.
Suzanne Verdal è oggi una senzatetto che vive a Venice, in California, e dorme in un’ automobile. In una intervista del 2006 ha dichiarato di non aver mai avuto rapporti sessuali con Cohen, come raccontato nella canzone dove è la mente di lui a toccare il corpo di lei, e di aver incontrato Cohen due sole volte, dopo il successo di Suzanne. La prima dopo un concerto e la seconda negli anni Novanta, quando Cohen viveva a Los Angeles.
Suzanne si lamenta che Cohen non si è fermato a parlare con lei, dopo averla incontrata per strada, ma la cosa più triste e probabile è che Cohen l’abbia riconosciuta, mentre chiedeva l’elemosina.
Songs Of Leonard Cohen, pubblicato il 27 Dicembre del 1967, è l’album di debutto dell’artista canadese, già affermato poeta e romanziere, prima di esordire a 33 anni come songwriter.
L’album rappresenta, al meglio, la capacità di Cohen di incarnare una versione più profonda e autoriale della figura del crooner (Cantante di musica leggera che predilige toni lenti e sentimentali).
Le canzoni che lo compongono, romantiche e intimiste, si rivelano subito molto di più che semplici canzoni d’amore, ma vere e proprie poesie animate dalla tensione lirica di Cohen e rese indimenticabili dalla sua voce scura, forse poco pulita, ma sicuramente espressiva.
In The stranger song arpeggi da sirtaki avvolgono nelle loro spire un salmo biblico/picaresco (Giuseppe “in cerca di una mangiatoia”, la parabola del figliol prodigo) in cui la gestualità che accompagna una mano di gioco d’azzardo (“the Holy Game of Poker”) si tramuta in un rituale d’espiazione ai confini del sacro (“amate, dunque, lo straniero perché anche voi foste forestieri in terra d’Egitto”).
Sisters of Mercy, fioco concerto per scampanellii di sonagli, bisbigli di mantici e lapilli di xilofono, che allieta sonnolenti squarci di beatitudine celeste intravisti fra le crepe sul soffitto di una casa di tolleranza.
So Long Marianne è una cantata tex-mex che sembra una versione tronca e ubriaca di Sad eyed lady of the lowlands. Hey, that’s no way to say goodbye. È un madrigale per aspiranti suicidi; fra solfeggi corali e contrappunti di scacciapensieri, Cohen mormora come un novello Chatterton alle prese con tintinnanti accenti da trovatore alla Donovan.
Stories of the street, rabbioso cantico di un’umanità prostrata e marginale, è un mirabile monologo vocale che esalta una delle caratteristiche più originali dell’interpretazione di Cohen: il suo contralto “ermafrodita” che spezza le monotonie virili con dolorosi strepiti ai limiti della stonatura, palpiti rivelatori di una complessa emotività femminile.
Teachers è una vorticosa profezia orientale, un doloroso vagabondare del Brahma alla ricerca di un compiuto equilibrio fra il mondo della carne e quello dello spirito (“Is my passion perfect?/ No, do it once again”), laddove One of us cannot be wrong è una salace diagnosi della crisi di coppia, frammenti di un discorso amoroso ormai stancamente giunto alle battute finali: nel bel mezzo di personificazioni e oggettivazioni dei sentimenti degne del Cavalcanti, comincia come un beffardo valzer al rallentatore e termina con la voce rotta da un pianto isterico e liberatorio.
Disco tra i più influenti di tutti i tempi, Songs Of Leonard Cohen è un saggio di come si possa creare il massimo della drammaticità con il minimo necessario di arrangiamenti. Il paesaggio è scarno, freddo, invernale: un grande vuoto popolato di spettri che vagano senza meta o perfino “per sbaglio”(“Some girls wander by mistake” nella suddetta Teachers).
Eppure in tanta desolazione l’emozione è dietro l’angolo, pronta a sorprenderti e a colpirti al cuore. Perché Cohen, menestrello dalla voce di rasoio, sa come penetrare nei recessi più cupi dell’anima, come scalfire la scorza amara della solitudine e violare l’intimità dei sentimenti. Le sue Songs del 1968 (ma anche molte altre di lì a venire) ne sono la testimonianza più sconvolgente.
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