EDITORIALE – Anno Domini 1984. Una delle annate più evocative della storia umana recente. Dai fumi distopici di Orwelliana memoria, passando per le tensioni da Guerra Fredda che attanagliavano il mondo in quegli anni, il 1984 è stato un anno memorabile per la musica ed il rock in generale, grazie alla pubblicazione di alcune gemme imprescindibili quali “Born In The USA” di Bruce Springsteen, “Powerslave” degli Iron Maiden, “Ride The Lightning” dei Metallica, “Stay Hungry” dei Twisted Sister e tanti altri ancora.
Una di tali gemme è appunto il sesto lavoro in studio dei Van Halen, ultimo fino a “A Different Kind Of Truth” del 2012 con David Lee Roth alla voce, prima dell’era ‘Van Hagar’.

Questo “1984”, come gran parte dei capolavori della storia della musica, ha avuto una gestazione non propriamente semplice.
Il buon Eddie Van Halen, compianto chitarrista e compositore formidabile, tra i più iconici della storia e scomparso prematuramente il 6 ottobre scorso a causa di un terribile e maledetto tumore alla gola, non era rimasto particolarmente contento dai risultati ottenuti dal precedente “Diver Down”, non tanto in termini di successo, dato che il disco vendette benissimo, quanto piuttosto dalle restrizioni creative imposte dalla Warner, la quale spinse molto sulla promozione delle cover presenti sull’album, cinque sulle dodici totali.
Lo stesso Eddie Van Halen che proprio oggi avrebbe compiuto 66 anni.
Un altro fattore di frizione fu dato dai battibecchi con David Lee Roth riguardo la sperimentazione con l’utilizzo dei synth, cosa fortemente voluta da Eddie in quel momento della sua evoluzione artistica, ma mal vista dal lungocrinito frontman, diatriba, questa, in cui Eddie riuscì infine a spuntarla, ottenendo così il semaforo verde dall’etichetta e dagli altri membri della band di potersi esprimere in libertà (esempio lampante è la gestazione di “Jump”, pezzo scritto da Eddie anni prima ma che non fu mai preso in considerazione fino a quel momento).
Ed ecco quindi giungere alle notti in bianco della iconica band della West Coast passate nel 5150, il famigerato studio di registrazione nella casa di Eddie a Pasadena, nonché titolo del successivo disco del 1986, per dare forma a tutte le idee del funambolico chitarrista olandese e metterle in musica.

In un modo o nell’altro, questo inevitabile scontro di personalità contribuì alla creazione di quello che probabilmente è il più completo, variegato e organico lavoro della premiata ditta Van Halen, anche se ironicamente sancì pure la fine della band in lineup originale, dopo sei anni e sei album insieme, date le ormai insormontabili differenze artistiche con la primadonna David Lee Roth.
Viene da sé che la scelta di utilizzare “Jump” come pezzo di apertura, forse la prima canzone inossidabilmente pop del gruppo californiano, sia stato sia un azzardo che una provocazione, un pezzo che è riuscito a stranire più di qualche fan all’epoca, ma che si è rivelato una scommessa vinta per il buon Eddie, diventando un intramontabile classico per la band, se non forse IL pezzo per il quale vengono ancora ricordati dalle masse trentasei anni dopo.
La canzone differisce dallo stile originario dei Van Halen, in quanto guidata da un’orecchiabile riff di sintetizzatore (eseguito su una Oberheim OB-Xa), anche se si caratterizza comunque per un pregevole assolo di chitarra, che è stato definito da Eddie Van Halen come il migliore che abbia mai composto. Jump è una delle canzoni più famose e riconoscibili del gruppo, e ha avuto il merito di introdurre l’utilizzo di tastiere e sintetizzatori in brani hard rock, influenzando diverse band che a partire dalla seconda metà degli anni ottanta troveranno il successo commerciale
Abbiamo un insieme di puro rock indiscutibilmente a marchio Van Halen con la successiva “Panama”, un tipico pezzo dove viene naturale immaginarsi a bordo di una El Dorado rosa sulla Pacific Coast Highway, con occhiali da sole e braccio fuori, un’altra vera e propria icona del manifesto musicale del gruppo.
E se mentre “Top Jimmy” mostra il lato più old school dei ragazzi, è con “Hot For Teacher” che si toccano nuovamente le vette inarrivabili degli Eighties ormai andati, con un’intro di batteria in crescendo e l’inconfondibile tapping di Eddie Van Halen che culmina in un’esplosione di riff che non può lasciare indifferenti, trascinato anche da un video musicale tra i più tamarri e cool della decade, con un David Lee Roth che sarà stato anche un tipo difficile con cui lavorare ma che aveva davvero pochi rivali all’interno della scena in quanto a presenza scenica e spirito da rockstar.
“I’ll Wait”, altro singolo scelto dalla band, un pezzo cadenzato trainato ancora una volta dai sintetizzatori, mostra una band che si trova a proprio agio anche fuori dalla propria zona di comfort, regalando un episodio energetico, perfetto come colonna sonora per una pellicola poliziesca dell’epoca, mentre “Girls Gone Bad” riporta in auge il lato più strettamente analogico del quartetto, con i riff e i virtuosismi di Eddie in primo piano, come da tradizione, ed un comparto ritmico serrato e puntualissimo ad opera dei sempre fedeli Alex Van Halen e Michael Anthony, i quali riescono a dare quella marcia in più in termini di rotondità e varietà del sound.
La conclusiva “House Of Pain” fa della semplicità e dell’immediatezza la sua forza, coronando alla perfezione questa ultima fatica del primo corso dei Van Halen.
La storia ci insegna che, tristemente, questo “1984”, oltre ad essere stato uno dei lavori più a tutto tondo della band di Pasadena – e sicuramente il più influente – è stato anche il canto del cigno del vecchio corso.
I Van Halen, dopo la separazione da Lee Roth, hanno continuato sulla loro strada, riuscendo ad inanellare un successo dietro l’altro e cementando la propria stella nel firmamento degli Dei del Rock, ma per chi vi scrive lo spirito genuino, caciarone e spensierato dei Van Halen ha raggiunto il proprio apice con questo piccolo, grande capolavoro degli anni Ottanta, simboleggiando il genio e la sregolatezza di un’epoca come pochi altri sono riusciti a fare, non venendo mai più eguagliato.
Eddie Van Halen mancherà per il suo essere originale, eclettico e dotato di un geniale ordine di suono e ritmica, che fece di lui un chitarrista sopra le righe in modo ordinato ma mai banale. Indimenticabile anche la sua chitarra nella leggendaria Beat It di Michael Jackson
