#TellMeRock, i cinquantadue anni di Houses Of The Holy, il giorno in cui i Led Zeppelin si riscoprirono comuni mortali

EDITORIALE – Il quinto album dei Led Zeppelin vede un rallentamento della loro incredibile ascesa.

Houses Of The Holy, pubblicato il 28 marzo del 1973, è una raccolta di canzoni di qualità eccelsa, ma i fan, forse ancora troppo inebriati dalle sonorità forti e futuristiche dei loro primi quattro volumi, lo accolgono con freddezza e distacco.

Per i seguaci del Dirigibile la sensazione è ottima ma non eccezionale, con un mantenimento delle irraggiungibili posizioni di vertice nel campo dell’hard e del folk rock, mentre la fase blues viene qui messa in temporaneo stand by…

Questa critica di fans e stampa mette a repentaglio la tenuta emotiva degli Zeppelin i quali, convinti di essere ormai i Re Mida della musica rock, si ritrovano con la consapevolezza tangibile che non è tutto oro ciò che producono.

Ma Houses Of The Holy, ovviamente per chi vi scrive, è un disco comunque epocale e influente, un passaggio obbligato per qualunque appassionato di musica rock.

The Song Remains The Same che inaugura l’album era all’origine solo strumentale. La cosa si capisce subito perché le strofe di Robert Plant sembrano forzatamente inserite all’interno della melodia, rendendosi così forzate e poco incisive, non come il cantante degli Zeppelin ci aveva abituati. Peccato, perché la solare cavalcata sulla dodici corde elettrica di Jimmy Page, supportata dalla inevitabilmente tonica “pacca” ritmica di John Bonham, è trascinante e brillantissima. Il batterista costringe Page e il bassista John Paul Jones a tutta una serie di break e di stop&go mozzafiato, Jimmy alterna accordi pieni, arpeggi e assoli in una vorticosa dimostrazione di creatività e senso armonico. Un grande brano a cui manca, ripeto, la giusta ispirazione nelle linee vocali per entrare fra i capolavori zeppeliniani.

Capolavoro è invece The Rain Song, la romantica ballata che segue a ruota, con un passaggio a contrasto così riuscito che il gruppo penserà bene di mantenerlo anche dal vivo, suonando questi due pezzi sempre uno dopo l’altro. Page riesuma e sublima qui i suoi studi sulle inusuali accordature folk, apprese dai grandi suoi maestri Bert Jansch e John Reinbourn, sfornando una successione di accordi acustici ad altissimo grado evocativo. Per ricrearli, bisogna “tirare” la prima, seconda, terza e sesta corda della chitarra su di un tono rispetto all’accordatura normale, dopodiché le posizioni da prendere con le dita risultano molto semplici. Jimmy Page è tra i tre, quattro chitarristi rock più famosi e rispettati di ogni tempo, e qui se ne ascolta uno dei motivi: la successione armonica è pura magia, la squisitezza del suo lavoro per tutti i sette abbondanti minuti del brano è una gioia per le orecchie. Il compare John Paul Jones ci aggiunge molto del suo, smanettando pesantemente col mellotron sì da rendere la faccenda molto sinfonica e progressive, allo stesso tempo struggente e barocca, forse compromettendo un poco le cose, forse no.

Over The Hills And Far Away è l’ennesimo mirabile capitolo di una fra le più tipiche e trascinanti situazioni zeppeliniane: Page e Plant cominciano da soli, uno all’acustica e l’altro al canto tranquillo e serafico, poi cala la mazzata di Bonham, più che mai terremotante, e salta tutto per aria. Plant passa a cantare due ottave sopra, Page imbraccia l’elettrica, Jones cuce il tutto col suo sapiente basso e, fra strappi e stacchi, si va verso una stranissima e lunga sfumata del pezzo.

La parte centrale del disco è quella più disimpegnata e superficiale: The Crunge è un pezzo molto alla James Brown che lo stile di Bonham impedisce di essere solo funky, Dancing Days si regge su poche cose, un riffotto di Page e le bordate di Bonham, D’Yer Mak’er è un omaggio all’allora nascente affermazione internazionale del reggae.

Quando sembra che gli Zeppelin vogliano divertirsi a coverizzare o mettersi in panni che non proprio gli stanno bene addosso, arriva il pezzo principe dell’album, nonchè uno dei miei brani preferiti della band inglese: No Quarter.

Tutto si può dire di questo brano meno che possa passare inosservato, è talmente unico e diverso nella discografia degli Zeppelin che non può essere omesso quando si sottolinea la fenomenale ecletticità e multifunzionalità della loro musica. Il riservato e genialoide John Paul Jones si inventa una cosa al pianoforte elettrico che è quanto di più malinconico e darkeggiante ci possa essere. Inserita poi in un disco decisamente solare, sin dalla copertina, quale è in effetti “Houses Of The Holy”, essa riesce a rappresentare e smuovere con ancora più efficacia il lato oscuro delle cose e di ciascuno di noi. Page si adegua alla grande alle voglie del suo bassista/tastierista, manovrando la Gibson su sentieri acid jazz e Plant si fa aiutare da filtri e leslie per straniare adeguatamente il suo pulito timbro vocale, abbastanza per star dietro ai suoi compagni in momentaneo e profondo darkeggiamento. Un pezzo assurdo, che piaccia o non piaccia il genere, una suprema dimostrazione di forza, di evoluzione, di apertura mental/musicale. Spettacolare la sua reinterpretazione nella reunion del 10 dicembre 2007 e poi inserita in Celebration Day

L’epilogo dell’album è affidato al bel riff in tempo dispari di The Ocean, una composizione dedicata alle folle oceaniche dei fan ai loro concerti. Un brano costruito sui fuori tempo di tutti i componenti della band, mentre Plant si impegna a dare un senso a quegli sbalzi di ritmo.

Uno dei tanti riti degli ultras dei Led Zeppelin è quello di andare a visitare le Giant Causeway, un tratto delle coste nordirlandesi dove è stata scattata la foto che fa da copertina all’album, poi pesantemente trattata e rifinita dal celebre studio fotografico Hipgnosys.

E’ la fase sperimentale nell’ascesa del Dirigibile, in un lavoro magari anomalo e non proprio conforme magari alle abitudini create nei primi quattro lavori. Ciò non toglie che, fra le legioni di ammiratori degli Zeppelin, un robusto manipolo di essi trovi quest’album semplicemente il migliore,

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