#TellMeRock, i cinquantadue anni di Ziggy Stardust, le multipersonalità di Bowie e la resistenza del glam rock

EDITORIALE – Il personaggio più famoso tra quelli creati da Bowie, si ispira a più personaggi.

Il primo è Norman Carl Odam, un rocker del Texas che si faceva chiamare The Legendary Stardust Cowboy. Il secondo è Vince Taylor, un incredibile cantante inglese che aveva costruito un alter ego che chiamava Mateus e che si era proclamato Figlio di Dio, (Bowie lo incontrò nel 1966 quando la sua popolarità era già scemata.

Il terzo è il personaggio di Arancia Meccanica interpretato da Malcolm McDowell e portato sullo schermo nel 1971 da Stanley Kubrick, al quale Bowie si ispirò per trucco, vestiti e capelli.

L’album, che narra l’ascesa e la caduta di Ziggy e che racconta metaforicamente la parabola della rock star che non riesce a nascondere fino in fondo le fragilità e le debolezze dell’uomo, è stato votato da un referendum di Out.com come l’album più gay di tutti i tempi.

Un gruppo di esperti e colleghi di Bowie, del calibro di Boy George e Cindy Lauper, ha selezionato i cento dischi più gay della storia, piazzando in cima proprio le avventure di Ziggy Stardust e i suoi ragni da Marte.

Gli anni ’70 sono un decennio irrepetibilmente ricco per il rock. Una proliferazione così numerosa di gruppi e cantanti, tutti dotati (con le dovute differenze) di grande talento, rimane un evento più unico che raro nella storia della musica e delle arti in genere. Perché, effettivamente, negli anni ’70, quel processo che già aveva avuto le sue manifestazioni negli anni ’60 (pensate al teatro decadente di Morrison coi Doors, o all’immaginario pop costruito dai Beatles, o ancora all’iperrealismo letterario di Reed) giunge al culmine e alla consacrazione.

 Parlo della trasformazione e della nobilitazione del rock in una vera e propria arte: non più semplice musichetta, ma opera; non più fenomeno di costume, ma corrente culturale. In quanto tale, il rock si dota di propri canoni interni e instaura rapporti con l’arte che l’ha preceduto, e così facendo si assicura un posto nella storia e inizia ad esercitare una profonda influenza su ciò che viene dopo. 

Ma cosa succede, esattamente, a un movimento che per sua natura è internazionale e investe artisti delle più disparate condizioni sociali, economiche e culturali? Avviene quello che chiunque può aspettarsi, e cioè una frantumazione in diverse sottocategorie. C’è, ovviamente, chi le abbraccia più o meno tutte (Velvet Underground) e chi invece trova successo nel consolidare una propria immagine intellettuale e iperartistica (Pink Floyd). 

David Bowie attraversa tutto ciò, ponendosi all’incrocio di queste varie correnti. Ma stiamo parlando di un Bowie complessivo, un col-senno-di-poi che tiene conto dell’intera carriera del Duca Bianco: il 16 giugno 1972, cioè cinquantadue anni fa, Bowie pubblica The Rise and Fall of Ziggy Stardust and The Spiders from Mars, concept atipico che si inserisce, ad un primo ascolto, nel filone del glam rock che tanta fortuna stava avendo. Sono gli anni, non dimentichiamolo, dei Roxy Music e di Transformer di Lou Reed e al rock piace travestirsi, trasformarsi, diventare altro rispetto all’autore, diventare alieno: e così, Bowie crea questa figura, Ziggy Stardust, un ragazzo che, grazie all’aiuto degli alieni, diviene l’ultima rockstar prima della sua caduta e dell’Apocalisse che distrugge l’umanità. Una cornice narrativa (che però viene semplicemente accennata nel disco; le grandi narrazioni vengono lasciate agli Who) che contiene, in sé, tutti i nuclei tematici e musicali del Bowie che era e del Bowie che sarebbe stato.

L’alter ego Ziggy Stardust è la chiave di lettura principale dell’album. Oltre ad essere spia del sistema di influenze che si era venuto a creare in quella mitica stagione (il già citato Lou Reed, ma anche Iggy Pop), è anche segnale del rapporto arte/rock di cui si parlava più su e di cui Bowie è un esponente principale. Il tema dello sdoppiamento dell’io, caro soprattutto al teatro, parte da Oscar Wilde (nume tutelare del neodandismo anni ’70) e, passando attraverso il nostrano Pirandello, arriva fino al rock anni ’70 e lo segna indelebilmente. Infatti, Ziggy Stardust era stato inizialmente ideato come musical, salvo poi approdare alla forma-disco. E Bowie, nel tour di supporto, lo interpreta, come un attore che esorcizza i suoi demoni cambiando personalità. E al tempo stesso, è il pretesto per uno dei grandi tòpoi dell’album, ossia il contrasto fra l’immortalità artistica e la temporalità umana: creandolo e in seguito annientandolo, Bowie dà al suo alter ego quella notorietà (il quarto d’ora warholiano) che lo consacra come classico del rock. E tutto ciò può essere ulteriormente letto come critica e parodia dello star system del rock di quegli anni, giovane ma già affermato.

Il disco si pone come collezione altalenante di ballate melodiche e rock più tirati, che coincidono coi momenti più drammatici della storia di Ziggy. Reinserendosi nel solco che lo stesso Bowie aveva tracciato con Hunky Dory, il disco è, com’è noto, un gioiello glam, e alcuni dei suoi pezzi sono vere e proprie perle che brillano nel repertorio di Bowie e degli anni ’70 tutti. Si pensi a Five Years, con quei suoi drammatici annunci apocalittici srotolati su una ballata in crescendo; o alla celeberrima Starman, che segue la dolce Soul Love e il glam di Moonage Daydream.

Primo singolo estratto dall’album e uno dei brani più celebri di David Bowie, Starman rivela il messaggio proveniente dallo spazio che interrompe le trasmissioni radiofoniche per raccontare la storia di un “uomo delle stelle” che entra in contatto con i giovani di una Terra ormai condannata, promettendo la salvezza del pianeta. Come rivelerà il cantante nel 1974, Ziggy Stardust non è l’uomo delle stelle ma il suo messaggero terreno, contrariamente all’opinione secondo cui spesso si è dipinto Ziggy come un extraterrestre.

Lady Stardust, It ain’t Easy sono le altre tracce che segnano l’album: la prima è un pezzo molto melodico, la seconda è una cover di un brano blues che Bowie rivisita in chiave space rock.

Ma nel disco trovano spazio anche, come detto, momenti di maggiore saturazione del suono, Hang On To Yourself Suffragette City. La narrazione procede attraverso momenti musicali indimenticabili, come la titletrack e l’atto finale di Rock ‘n’ roll Suicide, che segna la morte di Ziggy Stardust e, di riflesso, dell’epopea glam: lo stesso Bowie ne lascerà alcune tracce in Aladdin Sane, ma da questo momento in poi, Brian Eno si darà all’ambient, Lou Reed pubblicherà Metal Machine Music e il punk spazzerà tutto via.

Ma il glam ormai è stato: il postmodernismo che rivendica la sua musicalità attraverso queste figure, questi suoni, questi colori; ai posteri rimangono le infinite influenze di questo lavoro.

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