EDITORIALE – No, il leader dei Jethro Tull Ian Anderson davvero non ne poteva più. L’onda prog che stava travolgendo il rock nei primi anni ’70 era fatta di suites interminabili che secondo lo stesso Anderson, portavano l’ascoltatore a perdersi o addirittura ad annoiarsi.
In particolare nel mirino del flautista, erano finiti Tarkus di Emerson Lake &Palmer, In The Land Of Grey And Pink, dei Caravan e Lizard dei King Crimson. Lavori a cui lo stesso Anderson intese reagire con una parodia prog diventata poi un disco che ha fatto la storia.
L’idea di base, inventata di sana pianta dal funambolico Ian, fu quella di un giovanissimo scrittore, tale Gerald “little Milton” Bostock, la cui opera letteraria va a costituire le liriche dell’album, per inciso così ciniche disincantate e corrosive da risultare del tutto inaccostabili ad un qualsiasi adolescente o preadolescente al mondo.
E siccome al tempo i Jethro erano sulla cresta dell’onda (Aqualung uscito l’anno precedente era andato alla grandissima), la loro forza contrattuale all’interno della casa discografica era assoluta, tale da poter vedere realizzate le richieste più eccentriche e costose per quest’album, quale è senz’altro la copertina dell’LP costituita da un intero giornale! Naturalmente fittizio, con in testata un articolo sulle gesta del famigerato “piccolo Milton” e a seguire il resto, in perfetta simulazione, fino alle immancabili parole crociate dell’ultima pagina!
E la musica? Thick As A Brick, album che ha raggiunto le cinquantatre primavere lo scorso 3 marzo, è un‘unica suite di oltre quaranta minuti, divisa in due parti ma solo per l’esigenza logistica, al tempo, delle due facciate dell’LP.
Rispetto ad Aqualung c’è chi ci vede un ulteriore miglioramento ed affinamento dell’arte di questo grande gruppo, chi invece lo considera un mezzo passo falso, e comunque niente di paragonabile al capolavoro precedente.
Io dico la mia: considero la prima facciata di questo disco come una delle vette assolute dei Jethro Tull, ventitre magici minuti in cui quattro o cinque temi principali si susseguono, si sviluppano, si concatenano, si ripetono con diverso testo e arrangiamento in un mirabile equilibrio nel quale tutti gli strumentisti sono in assoluta evidenza.
Ian Anderson espone subito nel lungo prologo le sue (al tempo) proverbiali creatività, personalità e precisione alla chitarra acustica, debitamente guarnita di capotasto al 3° per alzare di un tono e mezzo le posizioni degli accordi. Si è sempre poco parlato dell’Anderson chitarrista acustico a causa della grande risonanza apportata dalla sua innovativa e incisiva tecnica al flauto suo strumento principale, ma lui è un grandissimo anche all’acustica! Sempre suonata col plettro mai con le dita, arpeggiata con sapienza, velocità e precisione con un gusto così britannico, celtico, a creare e incrementare il lato folk della musica del gruppo.
La Martin D-28 di Anderson scorrazza dunque in lungo ed in largo nell’introduzione della suite, missata bassissima per accentuare la dinamicità degli stacchi degli altri strumentisti, sempre più frequenti finché prende corpo l’andamento orchestrale della musica. Pregevoli sono gli intarsi e gli assoli di chitarra elettrica di Martin Barre, un impagabile musicista dotato di senso melodico, misura e buon gusto proverbiali, nonché del tastierista John Evans che si destreggia al piano e soprattutto all’Hammond anch’esso con misura ed incisività. Nella sezione ritmica spicca il nuovo batterista Barriemore Barlow, assai più potente ed estroverso del più classico e jazzatoClive Bunker da lui rimpiazzato. Il flauto c’è spesso e volentieri ma ha una funzione più di abbellimento che di vero centro focale della musica, con continui svolazzi ai lati del panorama sonoro e rari passaggi solistici veri e propri.
Trovo però efficaci soprattutto gli ultimi minuti di questa prima parte della suite, con un bellissimo cantato di Anderson sopra il suo sapiente accompagnamento alternato fra le corde basse e alte della chitarra ed un andamento della ritmica a marcetta ma molto lirica, a giga celtica ma con concessioni pop rock, folate di flauto tutt’intorno come uccelletti garruli e poi l’improvviso e drammatico chiudersi sul Do minore dell’acustica, da dove poi partono deflagranti e drammatici stacchi elettrici fino all’inviluppo terminale.
Ma va detto però che quest’opera consta anche di una seconda parte, purtroppo meno riuscita: i temi sono suppergiù quelli della prima e stavolta la loro ulteriore riproposta provoca una discesa di tensione e fascino, le variazioni d’arrangiamento non sono poi così importanti o riuscite, qualche tema nuovo affiora ma non è niente di speciale.
Spunta anche l’orchestra classica, arrangiata dal “sesto uomo” del gruppo Richard Palmer James, che fa grandi cose verso la fine … ma insomma, la mia tesi è questa: se la suite fosse stata contenuta alla sola prima facciata, essa sarebbe stata perfetta, inimitabile. Non per niente i Jethro sono soliti riproporre Thick As A Brick nei loro concerti in una versione della durata di quindici, diciassette minuti, tutti incentrati sui contenuti della prima facciata, una compressione efficacissima e con grande riscontro del pubblico in sala.
Viste le cose in prospettiva, concordo con la stragrande maggioranza dei fans più o meno devoti del gruppo nel considerare indubbiamente Aqualung superiore al disco in questione. Parliamo comunque di un gioco, di una parodia e di un esempio di ecletticità e ironia come pochi.
È il rock che sa anche prendersi gioco di sé stesso… che è e resta una grande cosa, comunque.