EDITORIALE – Le foto promozionali scattate da Dominque Tarle in un bianco e nero non molto contrastato nella villa in Costa Azzurra dove fu in buona parte registrato Exile on Main Street, ben sintetizzano il mood che generò l’album e l’humus vitale che lo nutrì. Vi si allunga l’ombra della decadenza, uno degli elementi principali di un disco denso, grezzo, anarchico e incontrollato.
Exile on Main St., cinquantuno primavere compiute lo scorso 12 maggio, è un album che porta i Rolling Stones ad assumere un approccio musicale più rude e schietto rispetto a qualsiasi altro loro lavoro precedente così come ai lavori che verranno. Il disco, uscito originariamente come doppio album, racchiude in se una grandissima varietà di stili e generi, rock n’roll, blues, certo, ma anche country e gospel.
Secondo LP per l’etichetta di proprietà del gruppo e secondo con Mick Taylor in formazione, Exile è inconfondibilmente l’album di Keith Richards. Lo attestano la sua dirompente energia, la ruvida spontaneità, le atmosfere malsane e lascive, la determinazione con la quale azzanna alla gola il rock n’roll e lo getta nella più torbida e infida delle paludi blues, con qualche apertura country, (suggerita dall’amico Gram Parsons).
E’ il disco delle radici e del recupero delle origini. Lo sottolineano gli inserimenti, voluti da Mick Jagger, delle cover di Stop Breaking Down di Robert Johnson e Shake Your Hips, di Slim Harpo.
Ma questo è un album da ascoltare nella sua totalità, nel suo insieme. Rip This Joint, Casino Boogie, Ventilator Blues sono ottimi esempi di rock n’roll, rock e blues tradizionale messi insieme, che dimostrano ampiamente come i Rolling Stones abbiano perfettamente assimilato tutti i generi della musica nera.
Turd On The Run, Happy (cantata da Keith Richards) e Rocks Off, costituiscono momenti scalmanati ma l’intero disco è un viaggio attraverso le strade più polverose e fangose del sud rurale degli Stati Uniti.
I momenti più squisitamente country si trovano in Sweet Virginia e Torn and Frayed, canzoni su base acustica accompagnate da strumenti elettrici ma che non perdono il loro sapore di pioggia e whiskey.
Il sound è, nonostante l’evidente presenza di strumenti a fiato, scarno, chiassoso ed essenziale. Le chitarre si intrecciano tra loro in maniera impeccabile e, fondendosi con il resto degli strumenti, formano un sonoro country – blues di assoluta godibilità.
Le già sopra menzionate Shake Your Hips e Stop Breaking Down, sono rivisitazioni che risultano essere convincenti e richiamano, così come il resto dell’album, tutto quella lussuria demoniaca che poi è propria del gruppo.
In questo contesto non possiamo quindi non citare I Just Want To See His Face, orgiastica e dall’andamento tribale.
Degna di menzione è inoltre Shine a Light, una gradevole ballad che richiama una ventata di romanticismo in un contesto blues e di rock primordiale. Sembra udire, in questo brano, alcuni accordi poi ripresi nel brano Streets Of Love del 2005
Il disco rivisita, quindi, in maniera genuina e qualitativamente alta, una pluralità di generi riconducibili alla musica nera e, in questo, risulta essere senza ombra di dubbio uno dei migliori lavori di rock e blues dell’intera storia della musica.
Per me, in maniera indiscutibile, il vero e proprio capolavoro dei Rolling Stones