EDITORIALE – Posso iniziare dicendovi che si tratta di uno dei dieci dischi principali degli anni ’70, di quelli che hanno cambiato decisamente il panorama del rock e del nascente metal.
Potrei forse terminare già qui il mio #TellMeRock odierno, ma tutto sommato mi sembra un tantino sintetica come recensione, ed allora aggiungerò poche, ma sentite parole a quanto già detto; Sabbath Bloody Sabbath è l’album più equilibrato dei Black Sabbath, perfettamente a metà strada tra la parte più dura ed oscura degli esordi e quella più votata alla sperimentazione che porterà, dicono in molti, al disastro di Technical Ecstasy del 1976, un album che conteneva anche del buono, ma questo è un altro discorso.
Senza dare troppo nell’occhio, Tony Iommi chiamò a collaborare un tastierista che rispondeva al nome di Rick Wakeman, in forza agli Yes (per gli under 15 uno dei gruppi di punta del movimento prog di allora a livello mondiale) che si occupò di inserire passaggi ed arrangiamenti di tastiera, sintetizzatore e piano, con risultati a dir poco eccellenti; l’operazione infatti non era affatto priva di rischi, anzi, sulla carta c’era più da perdere che da guadagnarci -un pezzo come Who Are You inserito su Paranoid sarebbe stato accolto diversamente- ma Wakeman si calò perfettamente nella realtà malata dei Sabs, confezionando da un lato loop ipnotici e destabilizzanti -come nella già citata Who Are You– e dall’altro delicatissimi tappeti sonori come in Fluff.
“Volume 4” ha spiazzato il pubblico dei Black Sabbath e diviso la critica tra coloro che lo considerano un passo in avanti nella crescita artistica di questi ragazzi di Birmingham e chi, invece, lo considera troppo lontano dagli standard che li hanno resi famosi. Nonostante questo, il successo del quartetto non accenna a diminuire e i Black Sabbath si ritrovano nuovamente catapultati in quel vortice disco-tour che ha fiaccato tante blasonate formazioni degli anni Settanta. In effetti anche i Sabbath non sono esenti da questo stress, complice anche il cambio di management tutt’altro che indolore: Iommi e soci, dunque, si prendono una piccola pausa, pur mantenendo inalterata la tabella di marcia, e si ritrovano quindi a registrare il nuovo album.
Fedeli al loro status di band oscura e sinistra, le sessioni che porteranno alla nascita di “Sabbath Bloody Sabbath”, cinquantuno anni compiuti lo scorso 1 dicembre, si svolgono nei sotterranei del Castello di Clearwell. L’atmosfera è perfetta e i quattro, tra alcol, droga e una visita del fantasma che, si dice, abiti il castello, mettono in musica l’ennesimo capolavoro. L’album si apre con la titletrack, uno dei vertici dell’intera carriera della band: un riff semplicemente perfetto si incastra su una struttura dinamica, potente e sofisticata al tempo stesso.
In “Sabbath Bloody Sabbath” la maturità compositiva del gruppo raggiunge nuove sfumature e colori: la band lascia spazio ad una vena progressive, che non va confusa con certi svolazzi intellettuali; la musica resta oscura, metallica e viscerale, tuttavia il gruppo costruisce una trama più fitta ed articolata, ampliando quanto già ascoltato in certi passaggi di “Volume 4”. Alla fine non si può fare a meno di notare che, pur non perdendo niente in forza ed impatto, il suono risulta più maturo, le composizioni più libere ed ariose, esaltando ognuna delle loro sfaccettature: Sabbath Bloody Sabbath (che dovrebbe essere o un riferimento al film Domenica Maledetta Domenica o allo stesso episodio citato poi dagli U2 in Sunday Bloody Sunday) è un sunto di quanto fatto da Butler & C. fino ad allora, rocciosa ed ossianica come non mai, riff hardissimo e break di classe, equilibrio perfetto.
Poi ancora più ammaliante A National Acrobat, con una prova vocale notevole di Ozzy Osbourne, una costante questa di tutto l’album.
Si arriva poi alla “dolce” Fluff, delicata e ben arrangiata da Wakeman e Will Malone.
Sabbra Cadabra propone tutto il meglio degli anni 70 con in più una contrapposizione gustosa tra musica Hard Rock e testo da canzone d’amore.
Poi si arriva a Killing Yourself to Live, scritta da Geezer durante un ricovero in ospedale dovuto a problemi ad un rene causati dall’alcool, mentre di Who Are You si può solo aggiungere che non è il caso di ascoltarla mentre si è depressi.
Più canonica, ma efficace Looking for Today, hard rock preciso e quadrato, poi la closer, il capolavoro dell’album, quella Spiral Architect che alcuni considerano la più bella canzone dei Sabs; non so se sia vero, ma è un grande pezzo, il cui testo fu scritto ancora da Geezer in pochi secondi davanti ad un esterrefatto Ozzy che stava telefonando, e che chiude con un capolavoro un disco che è anch’esso un capolavoro.
Chi ha sempre disprezzato i Black Sabbath lo ascolti, magari scopre di essersi sbagliato.