#TellMeRock, i Green Day e i trentuno anni del nuovo punk di Dookie. (E quella cover di Mino Reitano)

EDITORIALE – Quando il 1°febbraio del 1994, quindi trentuno anni fa, uscì Dookie, già il titolo prometteva bene (è un sinonimo di “shit”, che significa “merda”) , perché non solo annunciava lo sviluppo punk di quel gioiello underground che era stato Kerplunk, oggi ingiustamente quasi sconosciuto, ma anche perché segnava, nel senso più metaforico del termine, un messaggio scaramantico e benaugurante per il nuovo neonato genere.

Nei 31 anni che separano questa data da oggi, i Green Day hanno conquistato un esercito di fan, venduto milioni e milioni di copie, guadagnato cifre da capogiro, probabilmente riso davanti ai tanti ragazzini che cercavano di imitarne il look.

Questo successo vertiginoso ha però avuto un prezzo per loro: cedere gran parte dell’attitudine e dell’incedere punkeggiante per sostituirli con ampie dosi di pop. I risultati sono stati dischi di facciata, fino ad arrivare ad American Idiot che vede il tentativo-copiatura stile anni ’60 sotto il nome di Foxboro Hot Tubs. Per questo accanto ai fan fedeli ci sono sempre musicologi che odiano i Green Day per il fatto di ostentare il loro “power pop” come nudo punk. Senza entrare nella contesa, conviene allora celebrare Dookie e riascoltare i Green Day quando punk lo erano davvero, e lo dimostravano. 

Un altro strascico della fama ottenuta successivamente è che spesso si conosce quest’album per via del successo riscosso dalle canzoni e dai video di Basket Case e When I Come Around, veri e propri grimaldelli da classifica all’epoca. In realtà Dookie non è disco che si possa riassumere per singoli pezzi, ma anzi è un lavoro da prendere in blocco. Non si potrebbe altrimenti recepire fino in fondo l’atmosfera libera ed esaltante che lo pervade, quasi la colonna sonora di una serata passata al bar a bere con gli amici che fanno casino o, come nel mio caso, da assemblea di istituto al Liceo.

E’ il chissenefrega rivolto al mondo di tre ragazzi americani, e come tale non può che essere scanzonato e divertente, pur con quel senso di nervi sottopelle che hanno voglia di affiorare. Canzoni dirette, brevi, nude e crude e, se si vuole, anche perfette per il pogo; il punk non è davvero questione di tre accordi. 

La mente principale del disco è senza dubbio Billie Joe Armstrong da Viggiano, frontman della band, che oltre a donare la voce inconfondibile dal tono scuro-melodico, suona la chitarra in tutti i riff brucianti che marchiano a fuoco i brani. La caratteristica principale del disco è proprio quella delle chitarre, che fanno da piattaforma a tutte le canzoni, prendendo per ognuna uno spunto e poi facendolo crescere per tutta la durata del pezzo. Lo accompagnano senza cedimenti nella corsa il batterista Trè Cool che alle percussioni è una gran bella macchina e Mike Dirnt al basso, a mio avviso non valorizzato abbastanza ma sempre di buon livello quando è chiamato in causa.

Le canzoni sono dei proiettili velocissimi sparati in faccia all’ascoltatore, accelerati e dolorosi. Non fosse altro per la voce, che ha una sfumatura rilassata anche quando le chitarre fanno partire un treno vertiginoso, come nel pezzo di apertura Burnout.

Sono quattordici grovigli di cavi di ferro impigliati cementati nel muro di un suono granitico e solido. L’unica pecca è proprio l’eccessiva uniformità stilistica tra le canzoni: le variazioni sul tema sono poche e nemmeno troppo originali, e così se si ascolta il disco immaginandosi un po’ di varietà precostituita, esso parrà il rumoroso ronzio di un frullatore.

Ma in realtà le idee ci sono, Longview è un bell’esempio: finalmente emerge il basso che si staglia su un bel tappeto di batteria, e Billie Joe ci mette su tutto le parole. Ovvio che le rasoiate di chitarra non potevano mancare, e colpiscono forte nel ritornello, dilatate e sostenute fino a che tutto sfuma piano nel ritorno allo schema iniziale con l’aggiunto di accordi solitari.

Buone prove di questo tipo sono anche She e Chump, che al suo interno cova un’interessante digressione lanciata sulle corde del basso, incastonata tra due cavalcate di grezzo punk.

Altrove invece i tre allentano un po’ il tiro e pur non cambiando la miscela incendiario, danno origine a un bubblegum punk dal quale attingeranno a piene mani gruppi successivi come gli Alkaline Trio (prima che scoprissero archi e pianoforti) e altre band più legate all’ambiente emo-punk. Così in Pulling Teeth e nella celeberrima When I Come Around l’incedere si placa un po’, la chitarra smette di correre e decide di saltellare, facendo affiorare la macchina ritmica. Gli episodi migliori rimangono comunque nell’ambito dei pezzi più crudi, ma anche quando la band decide di tirare un po’ il freno non fa certo storcere il naso.

Il video di When I Come Around ritrae Billie Joe ArmstrongMike Dirnt e Tré Cool a piedi in luoghi diversi durante la notte; insieme a varie scene di persone che stanno facendo delle cose comuni collegate tra loro. Una delle prime scene del video si conduce alla scena finale del video. L’amico della band e chitarrista backup Jason White è presente nel video con la sua fidanzata, anche se non suonava ancora con la band.

Il disco termina con tre schegge che insieme durano poco più di cinque minuti e una conclusiva F.O.D. dove la rabbia è affidata per una buona metà a una semplice chitarra acustica e poi ancora lanciata sul binario del rock a tutta velocità. Dopo una parte di silenzio spunta All By Myself, cantata a sorpresa dal batterista Trè Cool accompagnato alla chitarra acustica da Billie Joe.

Capitolo a parte merita Basket Case: una vera bomba a orologeria, giusto il tempo alla miccia di accendersi e esplode tra le mani. In tre minuti raggiunge la perfezione del suond Green Day di cui è l’apice e, in fondo, si merita il successo che ha riscontrato; nei dischi seguenti i tre americani proveranno sempre a piazzare una canzone della stessa intensità (esempio fulminante è Brain Stew nel seguente disco Insomniac). L’effetto mainstream ha sminuito questo canzone, che aveva nel testo (oltre che al video ambientato in un manicomio) una scrittura di critica sociale: “I went to a shrink / To analyze my dreams…”

Settima traccia dell’album, la canzone è in stile punk rock e presenta una strumentazione, come in gran parte delle canzoni dei Green Day, composta da chitarra elettrica, basso elettrico e batteria. Colonna portante della canzone è il giro di accordi del canone di Pachelbel. Il cantato è più aggressivo che melodico ed è accompagnato, in gran parte della canzone, dalla chitarra elettrica distorta in sottofondo e dalla batteria la cui velocità aumenta a tratti durante i ritornelli.

Il testo, composto dal frontman Billie Joe Armstrong, tratta l’ansia e il sentirsi pazzi e frustrati, con uno sfondo che interessa anche il sesso e la speranza di riuscire a ritornare in se stessi.

Super curiosità: sapevate che il nostro Mino Reitano ne eseguì una cover intitolata Mino dove vai? Il cantante calabrese la propose in un’indimenticabile puntata del Maurizio Costanzo Show del 1995. Il brano avrebbe dovuto far parte di un disco a nome Mino e Le Mine Vaganti che però – dicono – venne boicottato dalla casa discografica e non vide mai la luce.

In tutto il disco, in realtà, i testi si giocano bene le proprie carte, e pur rimanendo la sensazione di spensieratezza affermata in precedenza, Billie Joe dipinge con il microfono il ritratto di un’America che appare libera, grande e perfetta e invece non fa altro che accumulare scheletri nell’armadio, dalla desertificazione delle speranze, al sentirsi realizzati ad ogni costo, fino all’inevitabile instabilità psichica (“Sometimes I give myself the creeps / Sometimes my mind plays tricks on me / It all keeps adding up / I think I’m cracking up / Am I just paranoid?”, ancora da “Basket Case), il tutto reinterpretato in una ironica ma mirata chiave giovanile (When masturbation’s lost its fun / You’re fucking lonely”, da Longview).

Un disco che ancora oggi, a oltre trent’anni di distanza, suona fresco e da riscoprire senza indugi, anche per rendersi conto dell’ondata di band che ha influenzato dall’uscita fino a oggi, il cui numero non sopperisce però alla fondamentale mancanza di qualità (Blink 182, Fall Out Boy, e giù di lì).

I Green Day, tralasciando le loro sbiadite versioni odierne, avevano davvero qualcosa in più.

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