EDITORIALE – Nell’autunno del 1982 David Bowie iniziò a lavorare alle canzoni di Let’s Dance con un obiettivo ben preciso in mente: realizzare un album in grado di scalare le classifiche di tutto il mondo con una manciata di hit dal fortissimo potenziale radiofonico.
Il tempo delle ricercatezze era finito due anni prima, con quello Scary Monsters (and Super Creeps) che riuscì a unire con ottimi risultati le sperimentazioni del periodo berlinese a una formula leggermente più immediata, nella speranza di riconquistare quella larga fetta di pubblico che non aveva apprezzato troppo le stravaganze sonore concepite in compagnia di Brian Eno e Tony Visconti. Il deterioramento dei rapporti con la RCA e la ricerca di una nuova etichetta convinsero l’ex Duca Bianco a giocarsi la carta della svolta commerciale per non rischiare di finire nel dimenticatoio e lasciarsi travolgere da un’ondata di epigoni cresciuti ascoltando i suoi brani.
Da qui la decisione di dare una brusca sterzata alla propria carriera: collaboratori storici quali Carlos Alomar, Dennis Davis e George Murray lasciarono il posto a una lista impressionante di espertissimi session men guidati dal Re Mida della disco music, il produttore Nile Rodgers.
Let’s Dance arriva così il 14 aprile del 1983 e, come suddetto, fa seguito alla celeberrima trilogia berlinese, capovolgendo completamente sonorità e intenti del “Bowie anni ’80”.
Il disco si apre nel migliore dei modi con la magnifica Modern Love, brano dal ritmo serratissimo e dalle venature soul e jazzate assicurate dal sassofono di Robert Aaron in dialogo con le chitarre di Nile Rodgers e Stevie Ray Vaughan, ad accompagnare la parte cantata, dal sapore gospel. Puts my trust in God and Man/ (God and Man) / No confessions! / (God and Man) /No religion /(God and Man) / Don’t believe / In Modern Love recita proprio il coro in coda al pezzo.
Se Modern Love apre con prepotenza il disco, non meno di successo si rivelerà la seconda traccia, una versione straordinaria di un brano del 1977 dell’amico Iggy Pop, ovvero la bellissima China Girl. Introdotta da un riff di chitarra orientaleggiante, il brano è un affascinante microcosmo che ci permette di avventurarci con sicurezza nell’universo disegnato dal disco: le nuove cadenze dance e pop sposate da Bowie si mescolano a sonorità soul e blues, in un mix in cui occidente e oriente si confondono, facendo crollare confini e barriere. Bello anche il videoclip che accompagna il brano, nel quale fa capolino un biondissimo David Bowie impegnato in una romantica avventura sentimentale con una misteriosa fanciulla cinese. Inutile dire che questa versione del pezzo oscurerà definitivamente l’originale di Iggy Pop, rivelandosi uno dei più ricordati successi di David.
Sarà straordinario anche il successo ottenuto dalla title track Let’s Dance, brano dalle sonorità blues accompagnato da un videoclip ambientato nel deserto australiano. Let’s Dance introdusse Bowie ad una nuova fetta di pubblico costituita da giovani all’oscuro della sua precedente produzione discografica degli anni settanta. Anche se la traccia si rivelò il suo brano dal maggior appeal commerciale fino ad allora, l’enorme successo ebbe l’incongruo effetto di allontanare Bowie da questo suo nuovo pubblico di teenager, che il musicista affermava di non conoscere, né di sapere cosa essi volessero o chiedessero. I successivi due album del cantante, prodotti in uno sforzo evidente di incontrare i favori di questa nuova audience, ne soffrirono dal punto di vista creativo e del risultato artistico stesso.
Delle otto tracce del disco vale sicuramente la pena di citare anche Cat People, canzone composta con Giorgio Moroder e pensata per la colonna sonora del film diretto da Paul Schrader, Il Bacio della Pantera, da cui il pezzo mutua le venature cupe e inquietanti sottolineate dalla bella voce baritonale di Bowie.
Nel 1981 il regista Paul Schrader chiese a Bowie di scrivere un tema musicale per un suo progetto cinematografico, peogetto per cui Moroder aveva già scritto la maggior parte delle musiche. Bowie allora decise di scrivere un testo da adattare a una delle musiche scritte dal produttore. La canzone stessa, in sintonia con l’atmosfera “dark” del film, possiede qualche lieve influenza goth rock, con Bowie che canta in un tono di voce molto basso da baritono controbilanciato da un coro di voci femminili. Il brano è presente anche in Bastardi senza gloria di Quentin Tarantino.
Ma nonostante siano meno noti, ricordiamo anche gli altri quattro brani che, pur non avendo il medesimo appeal dei singoli sopracitati e sebbene non siano pietre miliari della storia della musica restano dei pezzi di eccellente qualità e fattura.
A partire proprio da Without You con il suo andamento ipnotico assicurato dalle chitarre di Rae Vaughan e Rodgers e dalla voce di Bowie che si estende in un vasto range, dai toni baritonali al falsetto.
Non meno interessante Ricochet, brano insolito e difficilmente classificabile, anche e soprattutto nel contesto dell’album, pensato per un pubblico mainstream, ma che si fa ricordare per le sue variazioni di ritmo e per la sua trama elaborata e cadenzatissima.
Infine, chiudono l’album la magnifica Criminal World e Shake It.
Come abbiamo anticipato la critica ha un’opinione non unanime su quest’ album che, assieme ai due successivi lavori usciti negli anni 80 (Tonight e Never Let Me Down), vede Bowie allontanarsi dai sentieri più sperimentali del decennio precedente per assurgere al ruolo di superstar votata a sonorità di più facile ricezione. Cio’ nonostante, a distanza di 36 anni dall’uscita di Let’s Dance, resta intatto il fascino di questo lavoro e più che mai attuali paiono i brani che lo compongono nei quali, crediamo, David sia riuscito a fare convivere ritmi popolari (nell’accezione migliore del termine) e sonorità più ricercate. Su tutto domina, incontrastata, la magnifica voce del Duca Bianco con il suo timbro inconfondibile.