#TellMeRock, i quarantuno anni di Synchronicity, il canto del cigno dei Police

EDITORIALE – Fine della corsa per i The Police. È il 1’giugno 1983 e l’eclettico trio londinese si accinge a pubblicare Synchronicity, ultimo prodotto di una breve quanto significativa carriera artistica iniziata nemmeno dieci anni prima grazie all’incontro di tre musicisti ancora in erba e provenienti da mondi ben distinti e distanti.

La voce e le quattro corde di Sting forgiate nel jazz, le percussioni di Stewart Copeland strappate al rock progressivo e la versatilità della chitarra di Andy Summers in grado di far incontrare a metà strada ed assecondare con mestiere entrambe le parti. Con una buona dose di sana incoscienza la neonata band porta alla luce in pochi mesi il suo primo e personalissimo album ufficiale, grazie al quale riesce anche a strappare un contratto discografico a quell’etichetta che si rivelerà poi fedele compagna negli anni a venire: la A&M RecordsOutlandos D’Amour, lanciato dalle note provocanti di Roxanne, presenta un’attitudine ancora spregiudicata e tipicamente punk ma nonostante questo ingloba in sé molti dei futuri cavalli di battaglia del gruppo e lo spedisce direttamente in orbita. L’anno successivo arriva puntuale Reggatta De Blanc, un talismano di ispirazione che in un certo senso ne definisce a tutti gli effetti la proposta musicale; quell’affascinante miscuglio di reggae e rock amalgamati con maestria, con insistenti reminiscenze anarchiche del punk dei ’70 ed un gentile accenno al pop più tipicamente radiofonico. Su tutte spiccano Message in a Bottle e Walking on the Moon, canzoni icona del trio, dell’epoca, e tra i più celebri brani della storia del rock in assoluto.

La band è ormai sulla cresta dell’onda, mentre su quella dell’entusiasmo pubblicano il successivo Zenyatta Mondatta che purtroppo compie un piccolo passo indietro rispetto ai predecessori ma che sarà comunque in grado di lasciare il proprio timbro sugli anni ’80 grazie all’ossimorica, per la sua ripetitività da un lato e la sua intramontabilità dall’altro, De Do Do Do, De Da Da Da. Quarto anno di attività e quarto disco. La qualità delle produzioni si staglia sempre su di un livello medio alto ed è ormai garanzia di ottimi risultati, il che la dice lunga sul duro lavoro fatto dalle tre menti in fase di composizione, da questa legge infatti non sfugge nemmeno il seguente Ghost in the Machine, che vede la band abbandonare almeno parzialmente il caro “reggae dei bianchi” per dirigersi invece verso sonorità più coraggiose e cupe come testimoniano l’impegnata invisible Sun o l’onirica Secret Journey, anche se la vera punta di diamante del lotto resta rappresentata da Every Little Thing She Does Is Magic, una romantica e soleggiante manifestazione d’amore che si stampa indelebilmente in testa dell’ascoltatore fin già dal primo ascolto. Per questo o per quel motivo la formula dei The Police risulta ogni volta vincente e, nonostante gli attriti che cominciano lentamente a farsi strada tra le fila della band, Sting e compagni assumono sempre più i tratti di una macchina perfettamente collaudata e in grado come poche di sfornare oro dal nulla.

Come per il suo predecessore Ghost in the Machine, anche per questo Synchronicity le registrazioni vedono come destinazione il Montserrat nel mar dei Caraibi e vengono condivise con sua maestà produzione Hugh Padgham. La cover del disco lascia trasparire i sempre più crescenti dissidi interni destinando una fascia colorata ad ognuno dei tre componenti; blu per Copeland, rosso per Summers e giallo per Sting, intento a leggere proprio un libro sulla teoria della sincronicità di Carl Gustav Jung, e da qui il nome. “Eventi che avvengono simultaneamente senza che uno influisca materialmente sull’altro”, e quale definizione migliore per raccontare l’aria che si respira in casa The Police? Tre musicisti, tre artisti, tre uomini che agiscono in contemporanea pur restando perennemente settati su tre diverse lunghezze d’onda.

A connecting principle, linked to the invisible
almost imperceptible, something unexpressible
science insusceptible, logic so inflexible
causally connectible, yet nothing is invincible


Tale teoria viene sviscerata proprio nel chorus dell’opener Synchronicity I: un’apertura fulminea di sintetizzatore trascinata dalla frenetica batteria di Copeland su cui le voci affrontano con coraggio i temi sopracitati intrecciandosi in un continuo botta e risposta di nervo ed energia.

Sempre le percussioni a farla da padrone anche nella successiva Walking In Your Footsteps, una primitiva danza tribale che ci porta indietro nel tempo di qualcosa come cinquanta milioni di anni, giusto per fare le conoscenze di un certo Mr. Dinosaur.

Hei Mr. Dinosaur, you really couldn’t ask for more
you were God’s favourite creature, but you dind’t have a future
.



O My God è invece di un traccia funkeggiante e piuttosto indolore, dove troviamo il basso di Sting a dettare legge dal principio alla fine oltre ad un assolo scomposto di sassofono in chiusura. Summers e Copeland si ritagliano lo spazio dovuto rispettivamente nei brani numero quattro e cinque. Mother è un soliloquio isterico ad allucinato targato dal primo, mentre Miss Gradenko è una soave marcia caraibica concepita in toto dal secondo.



Dopo questi tre episodi indubbiamente piacevoli ma forse non esaltanti, i The Police tornano a fare sul serio con il secondo capitolo di Synchronicity, alzando di parecchio la posta in gioco. Synchronicity II, infatti, oltre ad essere uno dei quattro singoli ufficiali estratti dall’album, ne rappresenta con tutta probabilità anche uno dei pezzi più riusciti in assoluto e si occupa di riprendere la teoria di fondo del concept stendendo un instabile parallelo tra la sfiancante quotidianità di una famiglia della Londra borghese ed il leggendario mostro marino che si cela nelle profondita di Loch Ness.

Mother chants her litany of boredom and frustration
but we know all her suicides are fakes, daddy only stares into the distance


e ancora;

Many miles away something crawls from the slime
at the bottom of a dark scottish lake

Pelli e corde dei tre musicisti vanno a braccetto, macinando riff rockeggianti azzeccatissimi sui quali la voce di “Mr. Pungiglione” tesse trame melodiche coraggiose ed accattivanti. Il vertice di Synchronicity però verrà toccato solo pochi istanti dopo, quando l’inconfondibile pennata alternata di Andy Summers sull’accordo di La add9 scandisce uno degli arpeggi più noti di tutti i tempi e ci introduce gentilmente tra le note di quella che simboleggia tutt’oggi il vero grande capolavoro della band: Every Breath You Take.

Il brano venne registrato tra il dicembre 1982 e il febbraio 1983 all’interno delle sessioni dell’album Synchronicity agli AIR Studios di Monserrat, ai Caraibi, mentre il mix finale avvenne in Canada. Il singolo venne poi rilasciato il 20 maggio del 1983

La demo venne registrata in otto tracce da Sting, utilizzando un organo Hammond, all’interno degli Utopia Studios di Londra. Pochi mesi dopo decise di presentare il brano al resto della band durante le sessioni dell’album. Durante la registrazione Andy Summers scrisse una parte di chitarra ispirata a Béla Bartók, che sarebbe poi diventato il famoso riff. La registrò in un solo take. Ma tra Sting e Stewart Copeland le tensioni arrivarono a dei livelli indicibili, tanto che il produttore della band Hugh Padgham pensò che il progetto della band fosse definitivamente affondato.

Padgham ha raccontato, come riporta Virgin Radio, così le fasi di registrazioni del brano: “durante le sessioni di Every Breath You TakeSting desiderava un ritmo molto semplice a differenza di Stewart Copeland. Erano stanchi l’uno dell’altro. Sting e Stewart si odiavano a vicenda, e sebbene Andy non mostrasse così tanto odio, era piuttosto scontroso coi due e in studio spesso si poteva assistere a scontri sia verbali che fisici tra i membri della band”.

Sting scrisse il brano all’indomani della sua separazione da Frances Tomelty e all’inizio della sua relazione con l’attuale moglie Trudie Styler. Il giornale britannico Independent nel 2006 ha descritto così i motivi che generarono tanto clamore sulla separazione di Sting e sull’inizio immediato della nuova relazione: “Il problema è che era già sposato con l’attrice Frances Tomelty, che per caso era la migliore amica di Trudie (Sting e Frances erano i vicini di casa di Trudie a Bayswater). La relazione venne ampiamente condannata“.

Mi sono svegliato nel cuore della notte con quella frase in testa” ha raccontato in merito all’ispirazione che portò alla scrittura del brano, “mi sono seduto al pianoforte e la scrissi in mezz’ora. La melodia in sé è molto generica, è un insieme di centinaia di altre, ma le parole sono interessanti. Suonava come una canzone d’amore, quasi confortante. Ma all’epoca non mi rendevo conto di quanto fosse sinistra. Credo che stessi pensando al Grande Fratello, alla sorveglianza e al controllo“.

Infatti, anche se spesso il brano venga ricollegato ad una canzone d’amore, il testo parla di un amante possessivo che sta guardando “ogni respiro che fai, ogni mossa che fai“. Sting in seguito alla pubblicazione del singolo ha detto di essere rimasto sconcertato da quante persone pensavano che si trattasse di una canzone positiva. Lo stesso cantautore e bassista ha sempre insistito che il brano trattasse dell’ossessione per un amante perduto e della gelosia che ne consegue: “Una coppia una volta mi disse ‘Oh, adoriamo quella canzone, era la canzone principale suonata al nostro matrimonio!’ Ho pensato: “Bene, buona fortuna“.

Penso che la canzone sia molto, molto sinistra e brutta” ha continuato Sting, “le persone l’hanno effettivamente interpretata erroneamente come una dolce piccola canzone d’amore, quando è esattamente il contrario“.

La base della canzone è stata riutilizzata dal rapper statunitense Puff Daddy con Faith Evans nel brano I’ll Be Missing You del 1997, dedicata al rapper scomparso The Notorious B.I.G., che ha raggiunto la prima posizione nella classifica “Billboard Hot 100.

Dopo un grosso successo ne arrivano puntuali altri due; il brano numero otto porta infatti il nome di King of Pain ed è qualcosa di molto vicino ad un elogio della solitudine e del dolore, sensazioni esibite a mo’ di stendardo in questo scorrevole intruglio di pop-rock in cui trova spazio anche un preciso assolo della sei corde di Summers che va a ricalcare con cura le linee guida del pezzo.

I have stood here inside before the pouring rain, with the world turning circles runinng round my brain
I guess I’m always hoping that you’ll end this reign, but it’s my destiny to be the king of pain



Il numero nove invece si intitola Wrapped Around Your Finger e si snoda lungo ipnotiche cantilene sottoscritte dal solito impeccabile Sting prima di fiorire in un chorus finale che profuma di ottimismo e rivalsa.



A chiudere il cerchio ci pensa allora Tea in the Sahara, un susseguirsi di soavi ed impalpabili miraggi ispirati al romanzo Il tè nel deserto di Paul Bowles che rischiano di innalzare un velo di leggera malinconia sul finire di questa splendida avventura, poiché è proprio in quest’oasi incantata che dovremo dire addio una volta per tutte ai nostri cari “poliziotti”. Da qui in poi per il trio londinese solo raccolte, album dal vivo e qualche reunion, l’ultima nel 2008, accolta sempre con grande calore dai fan.



Siamo quindi in presenza dell’ultimo tassello di un coerente percorso pentagonale cominciato soltanto sei anni prima con l’elettrizzante debutto Outlandos D’Amour, durante il quale i The Police hanno inventato, sperimentato e ispirato musica sempre di una certa qualità, diventando così una delle formazioni più significative ed influenti della loro epoca. Synchronicity non è altro che l’ennesima prova di spessore di Sting & Co. Ricca di idee, spunti interessanti e grandi hit, anche se non del tutto esente da passi falsi e qualche piccolo filler sparsi qua e la lungo il percorso, una delle costanti ahimè riscontratabili in diverse loro produzioni. Una volta abbandonate del tutto le sfumature tipicamente punk e reggae degli esordi il rischio era quello di lasciare per strada un po’ di quell’esplosività ed energia che ne aveva scolpito con accuratezza il sound e l’immaginario. I tre però hanno saputo veicolare con sapienza tali caratteristiche verso lidi più morbidi e tondeggianti, a suon di pop, rock, e con inserzioni jazzistiche pescate direttamente dai rispettivi e solidissimi background, e il risultato finale non può che essere positivo.

L’addio di StingSummers e Copeland, d’ora in poi alle prese con le proprie carriere soliste verso personalissimi sentieri artistici, è quindi un saluto coraggioso, dignitoso e fiero, assolutamente riuscito, che si staglia sui soliti eccellenti livelli mantenuti durante tutto il corso della propria attività e pone rispettosamente la parola fine su di un capitolo di fondamentale importanza nella musica dello scorso secolo, che brilla tutt’oggi di luce propria, e che continuerà con tutta probabilità a farlo anche negli anni a venire.